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16/05/2022
Corporate and Commercial

Crisi energetica e aumento del costo delle materie prime: rimedi normativi e convenzionali alle sopravvenienze sperequative dei contratti commerciali

[NOTA IMPORTANTE: Il presente documento è aggiornato al 22 aprile 2022; poiché lo stato di crisi e le relative conseguenze sono in continua evoluzione, i contenuti del presente memorandum potranno essere soggetti a continue modifiche]

 

Parte 1

  1. Introduzione

L’attuale crisi acuta ([1]) dei prezzi delle materie prime e dello shortage delle stesse, aggravata dal conflitto in corso in Ucraina ([2]), sta avendo un notevole impatto in sede di esecuzione dei contratti commerciali. Vi è poi da sottolineare come l’attuale crisi si sia sensibilmente acuita anche in relazione, tra l’altro, alla significativa ripresa economica italiana dopo il crollo dovuto alla pandemia da Covid-19 ([3]).

Nonostante il contesto economico attuale sia ormai caratterizzato da una generale ripartenza economica, permangono le problematiche connesse ai disequilibri di natura contrattuale. Sotto il profilo giuridico, si ripropone il problema – già sorto in occasione della pandemia da Covid-19 – di individuare gli istituti giuridici che consentano di adeguare il regolamento contrattuale alle sopravvenienze economiche e giuridiche, tenendo conto anche dei recenti approdi giurisprudenziali che hanno preso le mosse proprio dal dibattito scaturito con la pandemia.

In particolare, si assiste a un duplice ordine di problematiche per gli operatori commerciali: da un lato, si pone il tema del rimedio per i fornitori di prodotti e servizi che vertono in una situazione di difficoltà nell’esecuzione dei contratti a causa dell’aumento dei costi e dello shortage delle materie prime; dall’altro, sorge l’esigenza di un rimedio per i clienti che subiscono i conseguenti ritardi e annullamenti delle forniture dei prodotti.

 

2. Inquadramento giuridico

2.1. Gli istituti giuridici

2.1.1. Istituti di applicazione generale previsti dal codice civile (impossibilità sopravvenuta ed eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione)

L’aumento considerevole dei prezzi delle materie prime e dell’energia elettrica potrebbe, per certi aspetti, considerarsi un evento di forza maggiore.

Il codice civile italiano non fornisce una definizione vera e propria di forza maggiore ma contempla alcuni istituti la cui applicazione presuppone il verificarsi di eventi riconducibili a tale concetto.

In particolare, per i contratti soggetti alla legge italiana, ferma restando la rilevanza di eventuali clausole contrattuali (cfr. le cd. force majeure e/o hardship clauses ivi incluse le c.d. material adverse changesMAC clauses tipiche della prassi internazionale, talvolta recepite anche nella prassi domestica, sulle quali si dirà infra), si dovrà fare riferimento, ai fini che qui rilevano, ai seguenti istituti: (i) impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore (artt. 1218, 1256 e 1463 e seguenti del codice civile); e (ii) eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione (artt. 1467 e seguenti del codice civile).

Prima di procedere a una trattazione di dettaglio degli istituti citati, si ritiene opportuno anticipare sin d’ora che i predetti rimedi scontano un limite operativo significativo, trattandosi di  strumenti volti a provocare lo scioglimento del vincolo contrattuale.

L’inadeguatezza di tale tipologia di rimedi, già osservata durante l’emergenza da Covid 19, pare ancor più evidente in un contesto economico, quale quello attuale, di ripresa dell’economia che difficilmente può tollerare la risoluzione dei contratti e il conseguente venire meno dei rapporti giuridici. Proprio a fronte di tale inadeguatezza, già durante l’epidemia da Covi-19, la Corte di Cassazione, nella relazione tematica dell’8 luglio 2020, n. 56 dell’ufficio del massimario e del ruolo (la “Relazione”), oltre a fornire ulteriori spunti circa gli istituti in questione, ha avvallato l’orientamento, sostenuto principalmente in dottrina ([4]), che sosteneva l’esistenza di un vero obbligo normativo di rinegoziazione del contratto per rivederne l’equilibrio.

(A) Impossibilità sopravvenuta della prestazione

Per impossibilità sopravvenuta della prestazione (di cui agli artt. 1218, 1256 e 1463 e ss. del codice civile) si intende una qualsiasi situazione impeditiva dell’adempimento, non prevedibile e non superabile tramite lo sforzo che può essere legittimamente richiesto al debitore.

In termini generali, l’inadempimento corrisponde alla mancata o non esatta esecuzione della prestazione dedotta in contratto, circostanza in grado di esporre la parte inadempiente a responsabilità contrattuale nei confronti della controparte. Tuttavia, secondo il generale principio di cui all’art. 1218 del codice civile, qualora la parte inadempiente dimostri che l’inadempimento è stato conseguenza dell’impossibilità di eseguire la prestazione per “causa a lui non imputabile”, questi può essere ritenuto non responsabile.

Nello specifico, mentre l’impossibilità originaria della prestazione impedisce il sorgere stesso dell’obbligazione, l’impossibilità sopravvenuta in un momento successivo alla nascita del rapporto tra le parti, a determinate condizioni, ne provoca, invece, l’estinzione, con conseguente scioglimento del vincolo contrattuale di diritto e liberazione del debitore dall’obbligo di adempiere.

Come ha avuto modo di osservare la Corte nella sua Relazione, lo spazio della risoluzione per impossibilità sopravvenuta è particolarmente limitato, essendo un rimedio percorribile solo qualora la prestazione dedotta in negozio sia divenuta completamente e definitivamente ineseguibile o inottenibile. Ciò pone non pochi problemi relativamente alle obbligazioni pecuniarie che, in quanto tali, come evidenzia anche la stessa Corte, non divengono mai impossibili ([5]), “non essendo esposte a una materiale o giuridica oggettiva impossibilità, ma solo a una soggettiva inattuabilità, connessa all’indisponibilità o alla penuria dei flussi di cassa” ([6]) .

Ai fini dell’applicazione dell’istituto di cui trattasi non è quindi sufficiente che si registri una mera maggiore difficoltà dell’adempimento o, ancora, una impossibilità di adempiere esclusivamente relativa alla sfera soggettiva del debitore. Al contrario, è necessario che la prestazione contrattuale in sé considerata sia oggettivamente divenuta impossibile da realizzare e/o che la condotta necessaria per adempiere non sia imponibile al debitore perché divenuta oggettivamente troppo gravosa. Naturalmente, è imprescindibile verificare che la situazione impeditiva dell’adempimento non sia stata causata da un comportamento doloso o colposo del debitore e non sia, dunque, imputabile a quest’ultimo. Al riguardo, la giurisprudenza ritiene sufficiente accertare, sulla base di una valutazione in concreto, che la situazione impeditiva si sia verificata per una qualsiasi causa che il debitore non era tenuto ad evitare né era in condizione di evitare.

Fermo quanto sopra, il concetto di impossibilità della prestazione può essere poi variamente declinato nelle ulteriori sotto-categorie (i) dell’impossibilità definitiva (determinata da un impedimento irreversibile o del quale non sia possibile prevedere il termine), (ii) dell’impossibilità temporanea (determinata da una impossibilità di natura transitoria), (iii) dell’impossibilità parziale che implica l’estinzione dell’obbligazione contrattuale esclusivamente per la parte divenuta impossibile.

Per quanto attiene agli effetti, verificati i presupposti di cui sopra, l’obbligazione contrattuale divenuta impossibile (a) si estingue, con conseguente risoluzione di diritto (in caso di impossibilità totale o parziale) del contratto, ove tale impossibilità sia assoluta e definitiva; o (b) può essere legittimamente sospesa, ove tale impossibilità sia solo temporanea.

Con specifico riferimento all’impossibilità temporanea, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1256 e 1463 del codice civile, il contratto non si risolve ma l’adempimento delle prestazioni può essere legittimamente sospeso; al superamento della ragione che ha determinato la sospensione temporanea il contratto riprende piena efficacia. Le obbligazioni sospese si estingueranno invece se l’impossibilità si protrarrà fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non potrà più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non avrà più interesse a conseguirla.

In caso di contratto a prestazioni corrispettive, l’estinzione di una delle obbligazioni contrattuali provoca, ai sensi dell’art. 1463 del codice civile, lo scioglimento dell’intero vincolo contrattuale. Tale scioglimento opera di diritto, senza bisogno di alcuna iniziativa della parte né di intervento del giudice. In presenza di controversie, le parti potranno, però, chiedere al giudice la pronuncia di una sentenza dichiarativa che attesti, in via inequivoca, l’avvenuta risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione e permetta, eventualmente, di richiedere, ai sensi dell’art. 1463 del codice civile, la ripetizione (secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito di cui all’art. 2033 del codice civile) della controprestazione, nel caso in cui questa sia già stata eseguita.

Nei contratti plurilaterali, l’impossibilità della prestazione di una delle parti non importa, invece, scioglimento del contratto rispetto alle altre, salvo che la prestazione che viene a mancare sia da considerarsi, nel caso di specie, essenziale per tutte le parti.

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Così delineati, seppure sommariamente, i tratti essenziali dell’impossibilità sopravvenuta, occorre indagarne la rilevanza nel contesto in esame.

In generale, sembrerebbe l’istituto in questione possa trovare un concreto spazio di operatività principalmente all’ipotesi della carenza di materia prime, mentre non sembra essere il rimedio adeguato per i casi di incremento dei costi dell’energia e delle materie prime.

Ad ogni modo, anche in relazione ai casi di shortage di materie prime, difficilmente possono ravvisarsi gli estremi dell’impossibilità totale o parziale; al più si potrebbe valutare la sussistenza di elementi tali da giustificare una sospensione dell’obbligazione, secondo lo schema dell’impossibilità temporanea.

(B) Eccessiva onerosità

In un contesto in cui il costo delle materie prime sta subendo un forte incremento dei costi, l’istituto giuridico che, prima facie, parrebbe più appropriato, è quello dell’eccessiva onerosità.

Come detto, più che un’“impossibilità” nell’adempimento, le attuali dinamiche economiche sembrerebbero infatti condurre a una situazione tale per cui i termini e le condizioni contrattuali originariamente pattuiti risultino non più adeguati al mutato scenario economico e squilibrati a favore di una parte contrattuale ([7]).

L’istituto dell’eccessiva onerosità sopravvenuta (di cui agli articoli 1467 e ss. del codice civile) legittima la risoluzione di contratti il cui equilibrio sia modificato da avvenimenti sopravvenuti – straordinari e imprevedibili al momento della conclusione del contratto – che non rientrano nell’ambito della normale alea contrattuale e che rendono una delle prestazioni eccessivamente onerosa o oggettivamente svilita nel proprio valore e/o nella propria utilità.

La valutazione in merito alla sussistenza dei presupposti sopra elencati deve essere condotta tramite un’indagine concreta.

Affinché si abbia eccessiva onerosità sopravvenuta, deve, in primo luogo, verificarsi la sussistenza di uno squilibrio tangibile del rapporto di valore tra le rispettive prestazioni contrattuali ([8]).

In secondo luogo, è necessario che il predetto squilibrio di valore delle prestazioni sia stato causato da eventi straordinari (da intendersi in senso oggettivo, sulla base di elementi suscettibili di misurazione, quali la frequenza, dimensione e intensità dell’evento) e imprevedibili (da intendersi in senso soggettivo ([9]), in relazione all’obbligazione rilevante, nel senso di travalicare le oscillazioni di valore delle prestazioni e le normali fluttuazioni di mercato).

In terzo luogo, deve ulteriormente accertarsi che il rischio realizzato dalle sopravvenienze straordinarie e imprevedibili di cui sopra ecceda l’alea normale del contratto, ovverosia quel margine di rischio intrinsecamente sotteso a all’intesa contrattuale ([10]).

Sotto il profilo dei rimedi azionabili al ricorrere dei presupposti descritti, il legislatore prevede anzitutto che la parte gravata dalla maggior onerosità possa chiedere al giudice la risoluzione del contratto.

A fronte della domanda di risoluzione, la controparte, qualora sia interessata a mantenere il vincolo contrattuale, potrà offrire di ridurre ad equità il contratto riportando lo squilibrio di valore delle prestazioni contrattuali nei limiti dell’alea normale ed evitando così l’effetto risolutivo.

Come evidente, il rimedio previsto dalla lettera della norma presenta un limite consistente nella possibilità della parte colpita dall’eccessiva onerosità sopravvenuta di chiedere soltanto la risoluzione giudiziale del contratto, essendo rimessa all’altra parte la mera possibilità di offrire una riduzione ad equità del contratto al fine di impedirne la risoluzione.

In altre parole, la facoltà di rivedere il contratto iniquo è riservata alla parte che, in teoria, avrebbe meno interesse a ottenere il riequilibrio, che implicherebbe una modificazione del contratto a suo svantaggio e, peraltro, entro un ambito di applicazione notevolmente circoscritto, potendo essere esercitata soltanto per paralizzare una domanda di risoluzione; la riduzione ad equità non potrà pertanto essere imposta dall’attore né operare di iniziativa propria del giudice.

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L’eccessiva onerosità, come sopra delineata, opera nell’ambito di limiti estremamente stringenti, ossia quelli dell’imprevedibilità e della straordinarietà.

Per quanto attiene la rilevanza dell’istituto di cui trattasi nell’ambito della crisi attuale, si rende pertanto necessario verificare se, avuto riguardo al mercato di riferimento, l’incremento del costo delle materie prime possa assumere i connotati dell’imprevedibilità e della straordinarietà, tenendo conto di elementi quali la portata e le tempistiche dell’’incremento dei costi, rapportandoli anche all’andamento del mercato di riferimento negli anni precedenti.

Ferme le verifiche di cui sopra, preme ancora una volta ribadire che la parte affetta dal sopravvenuto squilibrio contrattuale in ragione dell’aumento dei costi delle materie prime potrebbe disporre quale rimedio a propria tutela del solo scioglimento del vincolo contrattuale: una volta attivato il rimedio risolutorio è una mera facoltà della controparte, che trae vantaggio dalla sopravvenuta onerosità, offrire di riportare ad equità il contratto al fine di evitarne lo scioglimento.

 

Parte 2

2.1.2. Configurabilità di un obbligo normativo di rinegoziazione

Come si è avuto modo di osservare nei paragrafi che precedono, i rimedi espressamente previsti dal legislatore sono rimedi ablativi del contratto e non manutentivi. Essi, difatti, non prevedono la rinegoziazione del contratto, fatto salvo solo il caso dell’eccessiva onerosità sopravvenuta ove, come osservato, la facoltà di evitare la risoluzione spetta alla parte “beneficiata” e non a quella che subisce l’eccessiva onerosità.

La diffusione della pandemia da Covid-19 ha messo in rilievo l’insufficienza di un assetto normativo così impostato (peraltro non in linea con altre esperienze internazionali), riprendendo il dibattito dottrinale e giurisprudenziale in merito alla sussistenza di un obbligo normativo a carico delle parti, in casi quali quelli in esame, di rinegoziare il contratto per rivederne l’assetto negoziale e ripristinare l’equilibrio dello scambio.

D’altronde, già in epoca anteriore alla pandemia, autorevole dottrina ([11]) aveva ravvisato un obbligo legale di rinegoziare, traendone il fondamento principalmente nell’equità integrativa (ex articolo 1374 del codice civile) e negli obblighi di interpretazione ed esecuzione in buona fede del contratto (ex articoli 1366 e 1375 del codice civile).

Un’apertura in tal senso si è ravvisata anche da parte della giurisprudenza che, sebbene esitante, in alcune pronunce di merito si è mostrata favorevole a ritenere sussistente un tale obbligo ([12]), pur in assenza di un accordo tra le parti, al determinarsi di sopravvenienze di fatto o di diritto.

Senza pretesa di esaustività, l’orientamento in esame riconosce all’obbligo di rinegoziazione un ambito applicativo più ampio rispetto a quello relativo all’istituto dell’eccessiva onerosità sopravvenuta, trovando applicazione nei confronti delle c.d. “sopravvenienze atipiche” ([13]) che, in quanto tali, eccedono l’ambito di applicazione della disciplina sulla eccessiva onerosità sopravvenuta e che attengono, oltreché all’onerosità in sé considerata, anche alle sopravvenienze di esigenze nuove e di nuovi criteri di opportunità ([14]).

Secondo una tale ricostruzione, facendo leva sull’art. 1366 del codice civile, in un contratto a lungo termine deve ritenersi sussistente, quale clausola “in bianco” ([15]), la comune intenzione delle parti di rivedere, adeguare o modificare l’assetto contrattuale al variare della situazione di fatto, ove le condizioni pattuite non rispondano più alla logica economica sottesa alla conclusione del contratto.

Il vantaggio di un tale orientamento è innegabile: a prescindere dagli stringenti requisiti di straordinarietà ed imprevedibilità di cui all’articolo 1467 del codice civile, la parte svantaggiata da sopravvenienze di fatto o di diritto che incidano sull’equilibrio contrattuale (quindi il soggetto effettivamente interessato a conseguire un riequilibrio), sarebbe titolare di un diritto di avviare un procedimento di rinegoziazione del contratto al fine di ripristinarne l’equilibrio; di contro, il rifiuto a rinegoziare dell’altra parte, ex art. 1375 del codice civile, varrebbe come comportamento opportunistico e quindi non tutelato dall’ordinamento, con tutte le inevitabili conseguenze, in primo luogo sul piano risarcitorio.

Come anticipato, la Suprema Corte nella Relazione ha ripreso gli esposti approdi di dottrina e giurisprudenza nel senso di ribadire l’esistenza di un obbligo di rinegoziazione, sulla base dei parametri normativi già individuati in passato.

Anzitutto, la Corte, prendendo le mosse dall’articolo 1375 del codice civile e dalla portata sistematica della buona fede oggettiva nella fase esecutiva del contratto ha postulato la rinegoziazione quale step necessario per l’adattamento del contratto alle circostanze ed esigenze sopravvenute, qualificando la clausola generale di buona fede, in questa prospettiva, come una vera e propria garanzia di un comportamento corretto nella fase di attuazione del contratto.

Non solo, la Corte nella Relazione ha precisato che, in virtù della valutazione economico-giuridica del criterio della bona fides e degli obblighi di cooperazione fra le parti nella fase esecutiva del contratto, l’adeguamento del contenuto di quest’ultimo connesso all’obbligo di rinegoziare non contraddice l’autonomia privata, ma, al contrario, consente di portare a compimento il risultato negoziale prefigurato ab initio dalle parti, allineando il regolamento alle mutate circostanze.

La Corte ha inoltre aggiunto che anche l’interpretazione del contratto secondo buona fede, ai sensi dell’art. 1366 del codice civile, ben si presta all’individuazione di un obbligo a rinegoziare, rilevando come, sulla base di tale disposto normativo, fosse “possibile ipotizzare che le parti, se ne fossero state a conoscenza, avrebbero comunque trattato sulla base delle condizioni sopravvenute, dal momento che si sarebbe rivelata irrazionale una negoziazione impostata su una situazione di mercato non rispondente alla realtà” ([16]).

Sul piano della portata dell’obbligo in questione, si rende opportuno precisare che l’obbligo di rinegoziare impone soltanto di intavolare nuove trattative e di condurle correttamente e non invece di addivenire a un’intesa sulle diverse condizioni pattuibili.

Ne consegue, come osservato dalla Suprema Corte nella Relazione, che, affinché la parte tenuta alla rinegoziazione sia adempiente, è sufficiente che, in presenza dei presupposti che richiedono la revisione del contratto, essa: (i) promuova una trattativa o raccolga positivamente l’invito di rinegoziare rivoltole dalla controparte; e (ii) proponga soluzioni riequilibrative che possano ritenersi eque e accettabili alla luce dell’economia del contratto ([17]). Al contrario, non può essere richiesto alla parte obbligata di accettare tout court le richieste della parte svantaggiata o di addivenire in ogni caso alla conclusione di un accordo modificativo.

In ogni caso, qualora si ravvisi l’obbligo delle parti a rinegoziare, si potrebbe ipotizzare che il mancato adempimento di esso non comporti solo il risarcimento del danno ma esponga altresì all’esecuzione in forma specifica ex articolo 2932 del codice civile. Pertanto, al giudice potrebbe essere riconosciuto il potere di sostituirsi alle parti pronunciando una sentenza che tenga luogo dell’accordo di rinegoziazione non concluso, determinando in tal modo la modifica del contratto originario ([18]).

Delineate le caratteristiche dell’obbligo di rinegoziazione così come formulato da dottrina e parte della giurisprudenza, preme precisare che, l’orientamento in esame, sebbene abbia ricevuto, con l’occasione della pandemia ulteriore supporto in dottrina e da parte della Suprema Corte nell’ambito della Relazione, è ancora tutt’altro che cristallizzato in giurisprudenza. In assenza di un intervento da parte della Corte di legittimità, la giurisprudenza di merito emersa negli ultimi due anni è, infatti, ancora ondivaga ([19]).

Inoltre, occorre tenere in considerazione che, operando come una sorte di clausola generale “in bianco” ([20]), il rimedio in questione presuppone un’ampia discrezionalità interpretativa, basandosi su una valutazione economica-giuridica del criterio di buona fede che trae il fondamento in canoni di portata generale quali quelli di solidarietà contrattuale.

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L’aumento dei costi e lo stortage di materie prime paiono costituire una “sopravvenienza atipica” che ben si presta a confluire nell’ambito di applicazione dell’obbligo di rinegoziazione.

Come si è avuto modo di osservare, l’obbligo in questione prescinde infatti da una rigorosa verifica della sussistenza degli stringenti requisiti di “straordinarietà” ed “imprevedibilità”, essendo sufficiente che i sopravvenuti accadimenti fattuali o giuridici siano tali da giustificare – secondo il canone della buona fede – una revisione del regolamento contrattuale.

D’altra parte, non sempre tale rimedio potrebbe avere come risultato quello della manutenzione del contratto: infatti, laddove una delle parti si sottragga all’obbligo di rinegoziazione, non in tutti i casi un giudice sarebbe nella posizione di potere integrare la volontà delle parti, con l’unica conseguenza della risoluzione del rapporto contrattuale e condanna al risarcimento del danno a carico della parte che abbia ingiustamente rifiutato la rinegoziazione.

 

2.1.3. I rimedi previsti per alcuni contratti tipici. In particolare: l’art. 1664 del codice civile per il caso dell’appalto

Proprio al fine di ovviare alle incertezze interpretative legate all’obbligo di rinegoziazione come sopra esposte, soccorrono alcune previsioni dettate relativamente a taluni contratti tipici.

In via di sintesi, si rileva infatti che nella disciplina dei contratti tipici, si possono rinvenire una molteplicità di disposizioni la cui ratio risiede nell’adeguare/modificare il regolamento contrattuale al fine di consentire che si producano gli effetti dell’atto di autonomia privata ([21]). Tra queste, alcune previsioni sono precipuamente tese a dettare i presupposti e le modalità di modificazione delle condizioni contrattuali prestabilite, al fine di consentire una corretta prosecuzione dell’esecuzione del rapporto contrattuale, con indicazioni di natura qualitativa più o meno precisa ([22]).

Ai fini che qui interessano, ci si soffermerà sulla disposizione di cui all’articolo 1664, comma 1, del codice civile, dettato in materia di appalto ([23]), rubricato “onerosità o difficoltà dell’esecuzione”.

Tale articolo dispone, al primo comma, che, “qualora per effetto di circostanze imprevedibili si siano verificati aumenti o diminuzioni nel costo dei materiali o della mano d’opera, tali da determinare un aumento o una diminuzione superiori al decimo del prezzo complessivo convenuto, l’appaltatore o il committente possono chiedere una revisione del prezzo medesimo. La revisione può essere accordata solo per quella differenza che eccede il decimo”.

Al ricorrere dei presupposti indicati dalla norma, la parte colpita da eccessiva onerosità può dunque agire, in senso manutentivo, per ottenere il riequilibrio dell’assetto contrattuale.

Come chiarito dalla giurisprudenza, la disposizione in esame ha carattere speciale rispetto a quella dell’articolo 1467 del codice civile e ne impedisce l’applicabilità, prevedendo soltanto la revisione dei prezzi in luogo della risoluzione del contratto ([24]).

Sotto il profilo oggettivo, si rileva anzitutto che affinché trovi applicazione la disposizione in questione, è sufficiente che gli elementi siano “imprevedibili” non anche straordinari.

Nello specifico, il diritto di ottenere la revisione del prezzo è subordinato alla ricorrenza del presupposto che si verifichi una variazione del costo delle materie prime che abbia i caratteri dell’”imprevedibilità”, secondo un criterio di normalità, correlato alla figura dell’appaltatore medio ([25]).

Inoltre, eventuali incertezze interpretative circa la ricorrenza di una maggior onerosità sufficiente da giustificare l’attivazione del rimedio, sono attenuate mediante l’indicazione di un parametro fisso di natura quantitativa (i.e. il decimo del prezzo complessivo).

Infine, anche la revisione del regolamento contrattuale è contenuta nell’ambito di un intervallo prefissato (i.e. la differenza che eccede il decimo).

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Nell’ambito dei contratti di appalto, la parte svantaggiata dalla crisi attuale, potrebbe avvalersi della clausola in esame per ottenere una revisione nelle condizioni economiche entro i limiti quantitativi indicati dalla norma.

Lo scenario economico attuale, infatti, è caratterizzato da un aumento del costo delle materie prime che si riflette sui prezzi convenuti e che, per consistenza e rapidità, ben potrebbe qualificarsi come “imprevedibile”.

Affinché possa azionarsi il rimedio in questione è sufficiente verificare la riccorrenza dei parametri quantitativi di cui sopra e l’imprevedibilità delle circostanze dalle quali è scaturito l’aumento dei costi, senza rendersi necessarie ulteriori indagini circa la straordinarietà dell’evento o la fondatezza, sotto un profilo di buona fede, della revisione contrattuale.

 

2.2. I rimedi contrattuali. La prassi nei contratti commerciali internazionali e i principi unidroit

In un contesto in cui l’assetto normativo difetta di precisi rimedi manutentivi e presenta ancora profili di incertezza interpretativa, una soluzione auspicabile risiede nella previsione direttamente in sede contrattuale di meccanismi tramite i quali far fronte a quelle circostanze il cui verificarsi potrebbe disequilibrare in modo sostanziale la posizione economica delle parti, a beneficio di una sola di esse.

A tal proposito, la prassi commerciale, nazionale e internazionale, ormai da tempo, ha visto il diffondersi di specifiche previsioni contrattuali destinate a regolare a livello negoziale gli effetti delle sopravvenienze che incidono sull’equilibrio contrattuale.

Nello specifico, i rimedi contrattuali più ricorrenti e ormai diffusi nella prassi commerciale possono essere raggruppati in tre categorie:

  • clausole c.d. di hardship;
  • clausole c.d. di forza maggiore;
  • clausole c.d. “MAC – material adverse change” o “material adverse effect”, che regolano le conseguenze del verificarsi di eventi dagli effetti sfavorevoli significativi.

Trattasi di clausole che, sebbene presentino caratteristiche ed effetti diversi, sono accomunate da alcune caratteristiche: (i) la funzione generale di tutelare la parte che, in ragione di una situazione imprevedibile venutasi a creare, si trovi in una posizione di “debolezza” rispetto alla corretta esecuzione degli obblighi contrattuali a suo carico; (ii) l’adattabilità a contesti (domestici o internazionali) e a contratti diversi; (iii) l’effetto di riallocare il rischio di impresa ([26]).

2.2.1. Le clausole di hardship e forza maggiore

Limitando momentaneamente la trattazione alle clausole di forza maggiore e di hardship, si rileva in primis che le due clausole operano in modo diverso. La forza maggiore riguarda il piano dell’adempimento dell’obbligazione che viene resa impossibile dall’evento dedotto in contratto (in termini più o meno specifici) e l’hardship il profilo relativo all’equilibrio economico tra prestazione e controprestazione. Gli effetti che ne scaturiscono sono pertanto differenti: (i) la forza maggiore comporta tendenzialmente la sospensione delle obbligazioni in capo a una delle parti, esonerandola dall’adempimento, e, solo in un secondo ed eventuale momento, la risoluzione del contratto (se l’obbligazione non può essere eseguita o l’altra vi perde interesse); (ii) la clausola di hardship invece è tipicamente finalizzata ad avviare una rinegoziazione finalizzata a rimodulare il sinallagma per adeguarlo agli effetti discendenti dall’evento occorso.

In ambito internazionale, le fattispecie di hardship e di force majeure sono delineate dai Principi Unidroit dei contratti commerciali internazionali ([27]) (“PICC”).

Corre l’obbligo di evidenziare che i PICC sono strumenti non cogenti cd. di soft law concepiti per far fronte all’inconveniente dell’armonizzazione settoriale del diritto del commercio internazionale. È prassi nei contratti commerciali internazionali di disciplinare in modo più preciso e dettagliato quali circostanze possano costituire eventualmente forza maggiore e hardship nonché le loro conseguenze sulla vigenza del rapporto.

In particolare, l’art. 6.2.2 PICC prevede che l’hardship operi quando si verificano eventi che alterano sostanzialmente l’equilibrio del contratto, o per l’accrescimento dei costi della prestazione di una delle parti, o per la diminuzione del valore della controprestazione. Affinché si integri una causa di hardship è necessario che: (i) l’evento si verifichi o diventi noto alla parte svantaggiata successivamente alla conclusione del contratto; (ii) l’evento non sia prevedibile dalla parte svantaggiata al momento della conclusione del contratto; (iii) l’evento sia estraneo alla sfera di controllo della parte svantaggiata; (iv) la parte svantaggiata non abbia assunto il rischio di tale evento.

Quanto poi agli effetti dell’hardship, l’art. 6.2.3 riconosce il diritto della parte svantaggiata di chiedere la rinegoziazione del contratto. La richiesta di rinegoziazione, che di per sé non dà alla parte svantaggiata il diritto di sospendere l’esecuzione, deve essere fatta senza ingiustificato ritardo e deve indicare i motivi su cui è basata. In caso di mancato accordo tra le parti entro un termine ragionevole, ciascuna di esse può rivolgersi al giudice che, qualora accerti il ricorrere di un’ipotesi di hardship, può (i) risolvere il contratto, oppure (ii) modificarlo al fine di ripristinarne l’originario equilibrio.

La forza maggiore è invece disciplinata all’articolo 7.1.7 PICC, che, anzitutto, postula il principio generale per cui la parte inadempiente deve intendersi esonerata da responsabilità se prova che (ii) l’inadempimento era dovuto ad un impedimento derivante da circostanze estranee alla sua sfera di controllo; e che (ii) non era ragionevolmente tenuta a prevedere tale impedimento al momento della conclusione del contratto o ad evitare o sospendere l’impedimento stesso o le sue conseguenze.

Con riferimento alle conseguenze del verificarsi di un evento di forza maggiore, in caso di impedimento solamente temporaneo, l’esonero produce effetto soltanto per quel lasso di tempo che appare ragionevole, avuto riguardo all’effetto  dell’impedimento sull’esecuzione del contratto.

In ogni caso, sono prescritti alcuni obblighi procedurali a carico della parte inadempiente al fine di avvalersi dell’esonero di responsabilità, dovendo il soggetto inadempiente informare l’altra parte dell’impedimento e dell’effetto sulla sua capacità ad adempiere; difatti, se l’avviso non è ricevuto dall’altra parte entro un tempo ragionevole successivo al momento in cui l’inadempiente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza dell’impedimento, questi è tenuto al risarcimento dei danni risultanti da tale mancata notifica.

È infine precisato che la disposizione in esame non vieta alle parti di esercitare il diritto di risolvere il contratto o di ritardare l’esecuzione o di richiedere interessi sulle somme dovute.

Ai sensi del combinato disposto delle definizioni di forza maggiore e di hardship di cui agli articoli 6.2.2. e 7.1.7. PICC, si possono verificare eventi suscettibili di essere ricompresi nell’una o nell’altra categoria. In tale circostanza, spetta al debitore dover decidere quale rimedio esperire: invocando la forza maggiore potrebbe mirare a essere esonerato dalle conseguenze dell’inadempimento; invocando la clausola di hardship, tenterebbe di rinegoziare il contratto affinché lo stesso rimanga in essere ancorché con termini e condizioni modificate.

Pertanto, nel caso in cui vi sia la possibilità – vuoi per una specifica clausola contrattuale, vuoi per un richiamo ad una legge straniera o ad un trattato internazionale – di invocare una causa di forza maggiore, potranno essere prefigurati almeno tre rimedi adottabili dalla parte soggetta a tale causa, ovvero la sospensione della prestazione, la rinegoziazione del contratto o la risoluzione del contratto.

In merito alla sospensione del contratto, si segnala che spesso nei contratti internazionali viene regolato tale rimedio in relazione all’arco temporale massimo dello stesso e, nel caso di prolungamento oltre tale temine, la risoluzione del contratto o l’obbligo delle parti di procedere ad una rinegoziazione in buona fede dei termini e condizioni contrattuali.

Il rimedio della rinegoziazione del contratto, adottabile, a titolo di esempio, mediante la stipula di un accordo scritto modificativo del contratto originale, si sostanzierà nella determinazione dei nuovi termini e condizioni relative all’adempimento o, nei casi di maggiore difficoltà, di dare un nuovo equilibrio alle prestazioni delle parti in considerazione delle mutate circostanze. Per quanto attiene il rimedio della risoluzione del contratto, poco frequentemente la clausola di “forza maggiore” contenuta nel contratto può operare quale causa di risoluzione automatica, seppur tale rimedio risulterebbe inevitabile in tutti quei casi in cui la prestazione sia diventata impossibile o non più eseguibile per sempre o per un periodo di tempo che frustra le esigenze dedotte in contratto.

2.2.2. Le clausole MAC “material adverse change”

Diversamente da quanto descritto relativamente alle clausole di hardship e di forza maggiore, non esiste a livello internazionale una definizione di MAC: il contenuto delle clausole MAC è quindi totalmente rimesso all’autonomia negoziale delle parti e dipende dall’esito delle trattative tra le stesse.

Si rileva anzitutto che, secondo quanto emerso nella prassi contrattuale, rispetto alle clausole di forza maggiore e di hardship, le clausole MAC presentano caratteristiche diverse sotto il profilo delle modalità di allocazione del rischio: esse infatti producono l’effetto di allocare il rischio di eventi negativi in capo a una parte soltanto del rapporto contrattuale (che potrà, pertanto, solamente mitigarne gli effetti tramite un’adeguata negoziazione) e di legittimare, in tale ipotesi, l’altra parte a invocare la risoluzione del contratto. Il tenore della clausola, pertanto, va in senso contrario al principio della conservazione del contratto sebbene, in alcune sue formulazioni, compaia un c.d. ”right to cure” che offre al soggetto su cui è allocato il rischio di verificazione dell’evento il diritto di rimediare al suo accadimento.

Non solo, l’operatività delle clausole in esame è spesso circoscritta a un breve periodo di tempo ed è proprio la limitazione sotto il profilo della durata che consente in una qualche misura di tutelare anche la posizione della parte sulla quale viene allocato il rischio del mancato adempimento e dell’eventuale risoluzione del contratto.

*

Riguardo allo squilibrio contrattuale causato dal notevole incremento dei costi delle materie prime è, in primo luogo, necessario verificare la presenza o meno di una clausola di hardship, force majeur o MAC e la riconducibilità della circostanza in questione tra quelle che ne determinano l’attivazione.

Rispetto ai contratti in corso – anche tenuto conto di quanto disposto in sede di PICC e fatti salvi eventuali diversi accordi tra le parti – è ragionevole ritenere che rilevanti incrementi dei costi delle materie prime a seguito della ripresa post-pandemica possano costituire, quantomeno nei settori merceologici più colpiti, una circostanza imprevedibile, straordinaria e fuori dal controllo delle parti rilevanti ai fini delle più comuni clausole della prassi commerciale internazionale.

In assenza delle clausole di cui sopra, ai fini della gestione del rapporto dovranno esperirsi i rimedi previsti dalla legge applicabile al contratto.

Qualora le parti non abbiano espressamente scelto la legge applicabile al contratto, la sua individuazione deve essere effettuata nel rispetto delle norme di diritto internazionale privato del Paese del giudice competente a risolvere la controversia.

 

3. Profili giuridici relativi alla crisi energetica europea

3.1. Premessa: la crisi energetica europea e gli impatti sui contratti commerciali

In via di estrema sintesi, l’origine dell’attuale crisi acuta dei prezzi delle materie prime può essere individuata nel settore del gas naturale per ragioni prevalentemente esterne all’Europa, e alla successiva estensione al settore elettrico europeo, amplificatasi per diversi fattori, tra i quali spicca la scarsa produzione di fonti rinnovabili in Europa e la messa in manutenzione di diverse centrali nucleari francesi ([28]).

Per dare un’idea dello squilibrio che molti rapporti contrattuali stanno subendo, giova sottolineare che in Italia il prezzo netto dell’elettricità per l’industria a gennaio è stato il secondo più alto d’Europa ([29]): 225 euro per megawattora contro i 60 €/MWh di nove mesi fa. Trattasi di un valore che supera del 34% i prezzi praticati in Germania. A una base di partenza più alta rispetto a vari Paesi Europei, è poi corrisposto un aumento tra i più significativi in Europa: è stato infatti stimato che da marzo 2021 i prezzi italiani dell’elettricità sono aumentati di 3,7 volte. Ciò significa che il costo dell’energia per le imprese italiane potrebbe arrivare a 37 miliardi di euro nel 2022: quasi 5 volte di più rispetto al 2019, e in salita persino rispetto ai già elevati 21 miliardi del 2021. I costi complessivi per le imprese previsti per il 2022 sarebbero così superiori all’intero ammontare dei fondi destinati dal PNRR al Ministero della Transizione Ecologica (34,9 miliardi di euro). Se i prezzi non dovessero diminuire, la crescita del PIL italiano potrebbe essere inferiore dello 0,8% rispetto a quanto previsto nel primo trimestre del 2022, e quasi un terzo dei posti di lavoro nei settori più energivori  (500mila) sarebbe a rischio ([30]).

A inasprire ulteriormente la crisi energetica devono infine aggiungersi gli effetti delle sanzioni alla Russia in relazione al conflitto in Ucraina, essendo la Russia il primo fornitore energetico dell’Unione Europea ([31]). È stato calcolato che da maggio dell’anno scorso la Russia ha ridotto del 25% le proprie forniture verso i paesi europei con un picco del – 40% a gennaio 2022 ([32]).

Alla luce dei dati illustrati, è stato osservato ([33]) che la crisi energetica attuale in Europa non solo è straordinariamente intensa e perdurante ma è altresì caratterizzata da una componente aggiuntiva, ossia la presenza di una crisi di prezzi “combo”, con tensioni inedite che affliggono sia il mercato del gas sia quello elettrico, peraltro in maniera interconnessa.

A fronte di tale situazione economica, i riflessi sui rapporti commerciali si articolano come segue: una delle due parti del binomio produttore-consumatore si trova in posizione di sofferenza semi-permanente (gli utenti) mentre l’altra (produttori) – in ragione delle proprie risorse e contratti – può anche trovarsi in uno stato di profitto inaspettato della propria attività ([34]).

Sempre sotto un profilo giuridico, in termini generali, nel mercato di riferimento, le considerazioni illustrate nei paragrafi che precedono, sono di particolare pertinenza, attesa la peculiare struttura che assumono spesso i contratti di approvvigionamento di energia (in particolare, gas naturale); i contratti in esame sono infatti spesso strutturati come contratti di durata in cui sono contenute clausole c.d. take-or-pay, con cui l’acquirente si obbliga a ricevere una quantità minima di materia prima per ogni periodo contrattuale, oppure di pagarne il prezzo anche in caso mancato prelievo ([35]). Per effetto di tali clausole, pertanto, i produttori trasferiscono sui propri acquirenti il rischio connesso a variazioni del prezzo e della domanda.

3.2. Conclusioni: le soluzioni giuridiche per regolare gli effetti sui contratti commerciali della crisi energetica

Come indicato, la crisi energetica attuale presenta delle peculiarità tali da meritare una trattazione specifica rispetto alla più ampia fattispecie della crisi dei prezzi delle materie prime.

In sede di indagine delle conseguenze giuridiche della crisi energetica attuale, occorre in via preliminare verificare se i contratti in essere presentino delle clausole di hardship, force majeur o MAC: è infatti presumibile che, se così fosse, le attuali tensioni del mercato energetico rientrino nell’ambito di applicazione delle clausole in questione così come formulate nella prassi commerciali internazionale, ferma restando in ogni caso la necessità di un’indagine del dato contrattuale caso per caso.

Diversamente, in assenza delle clausole di cui sopra, gli unici rimedi disponibili saranno quelli previsti dalla legge applicabile al contratto.

Con riferimento alla legge italiana, si è già detto della limitata applicabilità del rimedio dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione in caso di mere difficoltà economiche connesse all’approvvigionamento delle materie prime.

Tale conclusione deve tuttavia essere rivalutata alla luce dell’inedito dato di natura geopolitica connesso alle ridotte forniture da parte della Russia.

In considerazione della forte dipendenza del mercato europeo dalle esportazioni russe, non è da escludersi che la situazione nei prossimi mesi possa evolversi nel senso di assumere i connotati dell’impossibilità sopravvenuta, nella sua declinazione dell’impossibilità di natura temporanea.

Fermo quanto sopra, appare tuttavia praticabile in un maggior numero di casi la soluzione offerta dall’istituto dell’eccessiva onerosità sopravvenuta.

Potrebbe infatti essere ragionevole sostenere che si raffigurino i presupposti della straordinarietà e imprevedibilità prescritti dall’articolo 1467 del codice civile.

Giova in tal senso non solo la portata dell’incremento dei costi ma, altresì, la rapidità di tale incremento e le anomalie scaturenti dall’assenza delle forniture russe.

Al riguardo, preme ribadire che l’istituto dell’eccessiva onerosità ha come proprio esito fisiologico la demolizione del contratto e non la sua preservazione. La parte gravata dalla maggior onerosità è infatti titolare soltanto del diritto di risolvere il contratto. L’eventuale riduzione ad equità potrebbe derivare soltanto da un’iniziativa del soggetto avvantaggiato dal sopravvenuto squilibrio contrattuale al fine di evitare lo scioglimento del rapporto.

Un’eventuale richiesta di rinegoziazione del contratto potrebbe tuttavia basarsi sulle disposizioni in materia di equità integrativa (ex articolo 1374 del codice civile) e sugli obblighi di interpretazione ed esecuzione in buona fede (ex articolo 1366 e 1375 del codice civile).

Sotto questo profilo, infatti, l’andamento del tutto straordinario e anomalo del mercato energetico degli ultimi mesi costituisce una sopravvenienza che potrebbe costituire un valido presupposto per sostenere, in un’ottica di esecuzione e interpretazione del contratto secondo buona fede, la sussistenza di un obbligo di rinegoziazione del regolamento contrattuale condiviso in costanza di uno scenario economico sensibilmente diverso (soprattutto nel caso di contratti di lunga durata).

Tanto chiarito, si ricorda che l’esistenza di un obbligo normativo di rinegoziazione non ha ancora trovato pacifico riconoscimento da parte della dottrina e della giurisprudenza.

Invero, stante la ragionevole ricorrenza del presupposto dell’imprevedibilità della crisi energetica così come attualmente configurata, nell’ambito dei contratti di appalto, potrebbe essere percorribile una revisione dei prezzi ai sensi dell’articolo 1664 del codice civile: in costanza dei presupposti quantitativi indicati dalla norma (i.e. l’aumento del costo delle materie prime tale da terminare un aumento superiore al decimo del prezzo), il contraente che subisce il disequilibrio può avvalersi del diritto di ottenere una revisione del prezzo, sebbene  con il limite normativo della sola differenza che eccede il decimo del prezzo.

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Il contenuto di questo elaborato ha valore meramente informativo e non costituisce, né può essere interpretato, quale parere professionale sugli argomenti in oggetto. Per ulteriori informazioni si prega di contattare il vostro professionista di riferimento ovvero di scrivere al seguente indirizzo: corporate.commercial@advant-nctm.com.

 

 

[1] Si parla di crisi acute con riferimento a situazioni “all’apparenza irreversibili o che faticano a terminare, causate quasi sempre da trigger, anche molteplici e concomitanti, di origine esterna e dalla giurisdizione poco definita perché molto estesa se non addirittura globalizzata. Durante tali crisi il giuoco delle parti viene come bloccato e cominciano a prodursi effetti plastici di aggiustamento strutturale. Quella di oggi nell’energia in Europa è una di queste crisi, straordinariamente intensa e perdurante per una varietà di fattori, ma con una complessità aggiuntiva: siamo entrati in una crisi di prezzi per così dire combo, cioè con tensioni inedite sia nel mercato gas che in quello elettrico, vieppiù interconnessi tra loro”. Si veda, sul tema, G. Bortoni, Caro-energia ‘21-‘22/ una crisi dagli effetti plastici, 23 dicembre 2021.
[2] L’impatto sulla food industry, ad esempio, risente anche dell’aumento dei prezzi del grano, aumentati del 5,7% in un giorno, raggiungendo il valore massimo da 9 anni a 9,34 dollari a “bushel” (staio, unità di misura internazionale pari a circa 35 litri, equivalenti a poco più di 27,2 kg di grano e 24,5 kg di mais), si veda l’articolo “La guerra in Ucraina fa balzare i prezzi di grano e mais: l’allarme del settore agroalimentare”, di Emiliano Sgambato, sul Sole24Ore del 24 febbraio 2022. Tale situazione rischi di ripercuotersi negativamente sul mercato agroalimentare italiano anche in considerazione del fatto che l’Italia è decima tra gli acquirenti per un valore di 496 milioni e il secondo fornitore di prodotti con una quota del 7% pari a 415 milioni, si veda, a tal proposito, l’articolo “Guerra in Ucraina e alimentare: a rischio forniture di mais, frumento e olio di semi”, pubblicato sul Sole24Ore del 21 febbraio 2022.
[3] È stato stimato un doppio rimbalzo del PIL del 6,5% realizzato nel 2021 ed una stima OCSE del 4,1% per l’anno corrente (tuttavia in corso di revisione a seguito degli attuali eventi internazionali connessi al conflitto in Ucraina), dopo il crollo del 2020. Cfr. A. Sganzerla, Aumento del costo delle materie prime, rinegoziazione del contratto di durata e clausole di hardship, in Norme e Tributi, su Sole24ore, 7 febbraio 2022.
[4] Si veda a tal proposito F. Macario, Regole e prassi della rinegoziazione al tempo della crisi, in Giustizia Civile, n. 3, 2014.; R. SACCO, G. DE NOVA, Il contratto, Milano, 2016, p. 1710 e ss
[5] Sebbene non sia oggetto del presente memorandum, si segnala che le conclusioni elaborate in materia di obbligazioni pecuniarie potrebbero essere riviste alla luce degli effetti delle sanzioni approvate nei confronti della federazione russa in relazione al conflitto in corso in ucraina.
[6] P.2 Relazione.
[7] Anche con riferimento a tale circostanza, si segnala che tali conclusioni potrebbero essere riviste alla luce degli effetti delle sanzioni approvate nei confronti della federazione russa in relazione al conflitto in corso in Ucraina.
[8] In merito, occorre tenere in considerazione che la giurisprudenza, in concreto, tende a valutare l’eccessiva onerosità dello squilibrio in termini rigorosi, dando rilievo alle variazioni (in aumento o in diminuzione) del valore degli elementi economici originariamente alla base del contratto nell’ordine della metà e, comunque, in misura mai inferiore a un terzo. Sul punto, F. Ruscello, Istituzioni di diritto privato, Milano, 2011 .
[9] Cfr. Cass.Civ. 25 maggio 2007, n. 12235; Cass. Civ. 19 ottobre  2006, n. 22936.
[10] In ragione di ciò, il codice civile – all’articolo 1469 – prevede che l’istituto in parola non si applichi ai contratti che sono naturalmente aleatori (es. contratto di assicurazione) o sono stati resi tali dalla volontà delle parti.
[11] Cfr. ex multis, F. Macario, op. cit., R. Sacco, G. De Nova, op.cit.
[12] Ex multis, si veda Trib. Bologna, sez. fall., 26 aprile 2013, reperibile su Pluris, ove il Tribunale ravvisa un vero e proprio obbligo di rinegoziazione, fondato sul principio generale di buona fede nell’esecuzione del contratto. Nello stesso senso, Trib. Bari, 14 giugno 2011, reperibile su Dejure.
[13] R. Sacco, De Nova op.cit., 1708 e ss.
[14] R. Sacco, De Nova op.cit., 1708 e ss.
[15] Cfr Trib. Bologna, sez. fall., 26 aprile 2013, reperibile su Pluris.
[16] Relazione, p. 24.
[17] Si veda in proposito la Relazione, pag. 25.
[18] Sul punto, si veda anche R. Senigallia, Le attuali sopravvenienze contrattuali tra diritto vigente e diritto vivente, in Jus Civile, n. 3, 2021.
[19] Si veda: (i) a favore della sussistenza dell’obbligo di rinegoziazione a causa del Covid-19, Trib. Roma, 27 agosto 2020, reperible su DeJure, con commento di M. Di Marzio, COVID-19: il giudice riduce il canone delle locazioni ad uso di ristorante, in Ilprocessocivile.it, 28 settembre 2020; (ii) a favore dell’esistenza dell’obbligo di rinegoziazione del contratto, escludendo però che possa essere richiesta una pronuncia di esecuzione in forma specifica ex art 2932 c.c., Trib. Roma, 26 luglio 2021, n. 10161, reperibile su DeJure; (iii) relativamente ad un contratto di affitto d’azienda, il giudice è intervenuto direttamente sul contratto, statuendo che, tenuto conto del fatto che la prestazione del concedente rimasta ineseguita era quella di maggior significato economico, il canone per il periodo di lockdown doveva ridursi del 70%, Trib. Roma, 29 maggio 2020. Contra, nel senso che nel nostro ordinamento non esiste alcun obbligo di rinegoziazione derivante dal principio generale di buona fede nell’esecuzione del contratto, si veda: (i) Trib. Roma, 30 settembre 2021, n. 15763, reperibile su DeJure; (ii) Trib Roma, 19 febbraio 2021, n. 3114, reperibile su DeJure.
[20] Cfr. Trib. Bologna, sez. fall., 26 aprile 2013 (decr.)
[21] Sul punto, F. Macario, Rischio contrattuale e rapporti di durata nel nuovo diritto dei contratti: dalla presupposizione all’obbligo di rinegoziare, in Rivista di Diritto Civile, n. 1, 1 febbraio 2002, p. 10063.
[22] A titolo esemplificativo, sono disposizioni volte a regolare le sopravvenienze, l’articolo 1623 cod. civ. in materia di affitto, e l’articolo 1710, comma 2, cod. civ. in materia di mandato.
[23] Ai sensi dell’articolo 1655 cod. civ. l’appalto è definito come “Il contratto con il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro
[24] Cass. 31 dicembre 2013, n. 28812.
[25] Cfr. Cass. Civ., 11 luglio 1990, n. 7208.
[26] In proposito, M. L. Vitali, Clausole di forz maggiore, di hardship e di assenza di effetti sfavorevoli: riflessioni ai tempi della “grande epidemia”, in Rivista di Diritto Bancario, ottobre/dicembre 2020.
[27] Reperibili al seguente indirizzo: https://www.unidroit.org/wp-content/uploads/2021/06/Unidroit-Principles-2016-Italian-bl.pdf.
[28] G. Bortoni, op.cit.
[29] Al primo posto si colloca la Spagna con 243 €/MWh.
[30] Si veda più ampiamente “Crisi energetica: l’Italia è diversa?” a cura di ISPI Data Lab, pubblicato il 16 febbraio 2022; per ulteriori approfondimenti sull’aumento dei prezzi delle materie prime si veda anche “Petrolio e gas senza freni: gli Usa vogliono colpire l’export russo e il mercato trema” di Sissi Bellomo, pubblicato su Il Sole24Ore il 7 marzo 2022.
[31] A. Ciò, Venti di Guerra sul fuoco della crisi energetica, in Quotidiano Energia, 24 febbraio 2022.
[32] ISPI Data Lab, cit
[33] G. Bortoni, op.cit.
[34] Si veda, sul tema, G. Bortoni, op.cit.
[35] F. Macario, op.cit.

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