La modifica del reato di corruzione tra privati
Il contesto pre-riforma
La repressione della corruzione tra privati ha da sempre costituito un tema sensibile in ambito internazionale. Tale attenzione è motivata dalla diffusa convinzione, scaturita da un’analisi economico-sociologica del fenomeno, che la repressione della “corruzione pubblica” debba perseguirsi anche attraverso un controllo sulla “corruzione privata”, in quanto parimenti pregiudizievole per il traffico economico e, dunque, per l’economia pubblica.
Nell’ordinamento italiano, il reato di corruzione tra privati è punito dall’art. 2635 c.c. introdotto dall’art. 1 del d.lgs. 61/2002 e, da ultimo, modificato dal d.lgs. 38/2017, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana in data 30 marzo 2017 ed entrato in vigore il successivo 14 aprile 2017.
Nella sua formulazione precedente alla riforma del 2017, l’art. 2635 c.c., contemplava:
- una prima fattispecie di c.d. corruzione passiva con riferimento agli amministratori, ai direttori generali, ai dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari e ai liquidatori che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, per sé o altri, compivano od omettevano atti in violazione degli obblighi inerenti il loro ufficio o degli obblighi di fedeltà cagionando nocumento alla società (art. 2635, comma 1 c.c.);
- una seconda ipotesi di c.d. corruzione passiva relativa ai soggetti sottoposti alla direzione e alla vigilanza dei soggetti indicati al comma 1 (art. 2635, comma 2 c.c.);
- una terza forma di c.d. corruzione attiva integrata da coloro che davano o promettevano l’utilità (c.d. “estranei”) ai soggetti indicati al primo e secondo comma al fine di indurre gli “intranei” (ovvero i soggetti interni alla società che omettono o compiono atti in violazione degli obblighi inerenti il loro ufficio) al compimento o all’omissione dell’atto dal quale scaturiva il nocumento per la società. Tale condotta, peraltro, era (ed è rimasta, come si vedrà più avanti) l’unica rilevante in tema di responsabilità amministrativa dell’ente nel cui vantaggio o interesse è stata posta in essere ai sensi del d.lgs. 231/2001[1] (art. 2635, comma 3, c.c.).
La norma sopra richiamata è stata, nel tempo, oggetto di alcune osservazioni critiche, tra cui quelle risultanti dal Rapporto di valutazione sull’Italia formulate dal Group of States against corruption[2] del 2012: “Innanzitutto, per quanto attiene la gamma dei possibili autori, l’articolo si limita a contemplare amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori. (…) In secondo luogo, per quanto riguarda i beneficiari della tangente, non viene fatta menzione nell’art. 2635 c.c. delle terze parti. In terzo luogo, con particolare riferimento alle azioni materiali che caratterizzano la corruzione, non vengono espressamente previste l’offerta di una tangente e la richiesta di una tangente. In quarto luogo non vi è un esplicito riferimento alla commissione indiretta di reato, es. tramite intermediari. In quinto luogo, secondo la legge italiana deve coincidere il danno alla persona giuridica che non è richiesto dalla Convenzione. Infine, il reato non è punibile ex officio, ma è necessaria la denuncia da parte della vittima”.
Anche alla luce di quanto sopra è stato possibile individuare alcuni margini di miglioramento della normativa nazionale in tema di repressione del reato di corruzione tra privati.
Passiamo ora ad esaminare le principali novità introdotte, in concreto, dal d.lgs. 38/2017.
I contenuti della riforma del d.lgs. 38/2017
Le maggior parte delle modifiche introdotte dalla recente riforma del 2017 hanno interessato la lettera dell’art. 2365 c.c.. Rispetto alla formulazione previgente:
- è stato ampliato il novero dei c.d. soggetti “intranei”, includendovi anche chi, nell’ambito organizzativo della società o dell’ente privato, esercita funzioni direttive diverse da quelle proprie dei soggetti di cui al precedente periodo;
- è stata estesa l’applicabilità della norma anche agli enti privati non societari (quali, ad esempio, enti no-profit);
- sono stati inseriti i riferimenti alla sollecitazione o all’offerta di utilità quali condotte attraverso le quali si può giungere all’accordo corruttivo;
- è stata estesa la punibilità anche ai casi di commissione del reato per interposta persona;
- non è più necessario, ai fini della punibilità del reato, che sia stato causato un nocumento alla società.
È stato poi introdotto l’art. 2635-bis c.c. relativo al nuovo reato di istigazione alla corruzione tra privati. Tale nuova fattispecie criminosa sanziona: (i) da un lato, chiunque offre o prometta, infruttuosamente, denaro o altra utilità al soggetto intraneo affinché compia od ometta un atto in violazione degli obblighi inerenti al proprio ufficio o degli obblighi di fedeltà; (ii) dall’altro lato, l’intraneo che solleciti per sé o per altri, infruttuosamente, anche per interposta persona, una promessa o dazione di denaro o di altra utilità, per compiere o per omettere un atto in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà.
Infine l’art. 6 del d.lgs. 38/2017 ha inasprito il regime sanzionatorio in caso di responsabilità amministrativa dell’ente di cui all’art. 25-ter del d.lgs. 231/2001 per i suddetti reati di corruzione e istigazione attiva commessi da soggetti interni all’ente stesso. Le sanzioni pecuniarie arrivano ora fino a un massimo di oltre 900.000 euro per le ipotesi di corruzione attiva e di oltre 600.000 euro per il reato di istigazione attiva. Viene altresì prevista l’applicabilità delle sanzioni interdittive di cui all’art. 9, comma 2, d.gs 231/2001[3].
Le principali questioni rimaste irrisolte dopo la riforma
Come sopra anticipato, le novità introdotte dalla riforma del 2017 non paiono avere risolto tutte le problematiche legate all’efficacia del sistema punitivo della corruzione tra privati.
Innanzitutto, se è vero che il d.lgs. 38/2017 ha portato a un avvicinamento della normativa italiana rispetto alle istanze provenienti dalle riflessioni svolte a livello sovranazionale, la soddisfazione di tali istanze non può dirsi ancora completamente compiuta.
L’estensione dell’ambito soggettivo del reato di corruzione tra privati, infatti, pur ricomprendendo ora anche coloro che svolgono attività lavorativa mediante l’esercizio di funzioni direttive, non sembra integrare appieno quanto raccomandato dalla Decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio dell’Unione Europea. L’art. 2, par. 1 lett. a), di tale Decisione raccomanda infatti agli Stati membri di adottare le misure necessarie per assicurare che costituisca illecito penale promettere, offrire o concedere, direttamente o tramite un intermediario, a fronte della violazione di un dovere, un indebito vantaggio ad una persona che svolge funzioni direttive o lavorative di qualsiasi tipo (e non solo direttive) per conto di un’entità del settore privato.
Inoltre, è rimasto inalterato l’elemento che ha spesso ostacolato l’applicabilità della previsione di cui all’art. 2365 c.c.[4] ossia la procedibilità a querela “salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi” (deroga non inserita invece per quanto riguarda il reato di istigazione corruzione tra privati di cui all’art. 2365-bis c.c., stante la sua natura di reato di pericolo). Tale scelta potrebbe essere ritenuta da alcuni parzialmente incoerente con la ratio ispiratrice della riforma: l’avvicinamento del sistema punitivo italiano del fenomeno corruttivo alle succitate istanze di tutela pubblica potrebbe risultare pregiudicato se la tutela degli interessi sottostanti alla previsione del reato di corruzione tra privati possa attivarsi solo su impulso di singoli individui.
Infine, quanto alle modifiche apportate all’art. 25-ter del d.lgs. 231/2001, si noti che la configurabilità della responsabilità amministrativa dell’ente permane per i soli casi di corruzione e istigazione attiva. Tale limitazione, se poteva essere comprensibile alla luce del requisito del nocumento alla società, che di fatto rendeva impossibile che la corruzione passiva potesse essere effettuata a vantaggio dell’ente, risulta meno chiara alla luce della novella che ha eliminato dall’art. 2365 c.c. ogni riferimento a tale requisito.
Restiamo quindi in attesa di verificare la posizione che assumerà la giurisprudenza sul punto.
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[1] Il d.lgs. 231/2001 ha introdotto nell’ordinamento giuridico italiano la c.d. responsabilità amministrativa degli enti (incluse le società di capitali) derivante da taluni reati tassativamente previsti dal legislatore (ivi comprese diverse ipotesi di corruzione), commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente, da persone fisiche che ivi ricoprono determinate funzioni apicali ovvero dai loro sottoposti.
[2] Il Gruppo di Stati contro la corruzione, c.d. GRECO, è un organo di controllo contro la corruzione del Consiglio d’Europa con sede a Strasburgo ed è stato istituito nel 1999 con un accordo di 17 Stati membri del Consiglio d’Europa.
[3] L’art. 9 comma 2 del d.lgs. 231/2001 prevede, quali pene interdittive: l’interdizione dall’esercizio dell’attività; la sospensione o la revoca di autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione; l’esclusione di agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi; il divieto di pubblicizzare beni o servizi.
[4] Basti pensare che la stessa relazione di accompagnamento del progetto di riforma evidenzia come nel biennio 2013-2014 siano stati censiti solo due processi per corruzione tra privati nella fase dibattimentale.