L’impatto del Coronavirus sui contratti commerciali soggetti a legge italiana: gli ultimi orientamenti della Corte di Cassazione
[NOTA IMPORTANTE: Il presente documento è aggiornato al 22 luglio 2020 siccome lo stato di emergenza ed il relativo quadro normativo sono in continua evoluzione, i contenuti del presente memorandum potranno essere soggetti a continue modifiche.]
1. Premessa
Oggi, le misure restrittive intraprese, negli ultimi mesi, dal governo italiano per far fronte all’emergenza epidemiologica da Covid-19, sono state ormai in gran parte ridimensionate nell’ambito del territorio nazionale, ferme solo quelle misure volte a continuare a garantire il distanziamento sociale, in quanto la presenza del Covid-19 non è ancora stata debellata e, anzi, potrebbe dare origine a recrudescenze nel prossimo futuro.
Ciononostante, proprio alla luce delle importanti misure adottate durante la fase di lockdown, si è più volte reso opportuno approfondire quale fosse la portata dell’impatto di tali misure emergenziali sulle realtà economiche e sui rapporti giuridici in essere tra i diversi operatori economici, considerando che la situazione, oltre che colpire aspetti societari, l’attività produttiva, ha avuto (e potrebbe continuare ad avere) un impatto notevole anche sulla supply chain e sulla logistica. Difatti, la diffusione del Covid-19 e le misure straordinarie e urgenti intraprese hanno avuto – anche in Italia – impatti, talvolta notevoli, sull’esecuzione dei contratti commerciali, comportando ritardi nell’adempimento delle obbligazioni previste da diversi contratti o, in alcuni casi, una vera e propria impossibilità della prestazione.
In tal senso, è quindi sicuramente utile esaminare quanto da ultimo affermato dalla Corte di Cassazione nella relazione tematica n. 56, “Novità normative sostanziali del diritto “emergenziale” anti-Covid 19 in ambito contrattuale e concorsuale”, pubblicata in data 8 luglio 2020 (la “Relazione”).
In tale Relazione, la Suprema Corte ha difatti riconosciuto come lo shock economico derivante dalla diffusione del Covid-19 abbia fatto emergere due problematiche interconnesse: (a) la gestione delle sopravvenienze che hanno turbato l’equilibrio originario delle prestazioni contrattuali; e (b) i correlati rimedi di natura legale e convenzionale [1].
2. Forza Maggiore e possibili rimedi
2.1 Gli istituti del codice civile
Come si è già avuto modo di esaminare, l’emergenza epidemiologica da Covid-19 ha assunto i caratteri di quello che potrebbe qualificarsi come un evento di forza maggiore. A tal riguardo, si segnala che il codice civile italiano non fornisce una definizione vera e propria di forza maggiore, seppure contempli alcuni istituti la cui applicazione presuppone il verificarsi di eventi riconducibili al concetto di forza maggiore. Difatti, per i contratti soggetti alla legge italiana, ferma restando la rilevanza di eventuali clausole contrattuali, si dovrà fare riferimento, in particolare, ai seguenti istituti:
- impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore (art.1218, 1256 e 1463 c.c.) [2];
- eccessiva onerosità sopravvenuta (artt. 1467 e ss. c.c.) [3].
In ogni caso è opportuna naturalmente una valutazione caso per caso al fine di attivare il rimedio maggiormente opportuno anche alla luce del testo contrattuale rilevante.
In questo contesto, essendo ancora carente la giurisprudenza sul tema, appare sicuramente utile esaminare quanto affermato dalla Suprema Corte sugli istituti di cui sopra.
In primo luogo, la Corte ha evidenziato come, sul piano dei rimedi offerti dal codice civile, lo spazio della risoluzione per impossibilità sopravvenuta risulta particolarmente stretto in quanto tale rimedio sembrerebbe percorribile solo ove la prestazione dedotta in negozio sia divenuta completamente e definitivamente ineseguibile o inottenibile.
Ciò pone non pochi problemi relativamente alle obbligazioni pecuniarie che, in quanto tali, come evidenzia anche la stessa Corte, non divengono mai impossibili, “non essendo esposte a una materiale o giuridica oggettiva impossibilità, ma solo a una soggettiva inattuabilità, connessa all’indisponibilità o alla penuria dei flussi di cassa” [4].
Inoltre, considerando che le misure restrittive adottate dal governo italiano hanno avuto durata limitata nel tempo, tendenzialmente tutte le prestazioni divenute impossibili ai sensi di tali misure sono state caratterizzate da impossibilità solo temporanea, non dando quindi diritto ex se alla risoluzione del rapporto e/o dell’obbligazione, divenendo semplicemente il debitore non responsabile del ritardo per tutto il tempo in cui la prestazione è temporaneamente impossibile.
In tale circostanza, ai sensi di quanto previsto dall’articolo 1256 del codice civile, l’obbligazione si estinguerebbe difatti solo “se l’impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione alla natura dell’oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla”.
La Suprema Corte pone altresì l’accento sul fatto che, nelle ipotesi di cui trattasi, è facile che la prestazione divenga solo parzialmente impossibile, senza che, dunque, possa estinguersi nemmeno la singola obbligazione, dando infatti origine a un’impossibilità parziale che, ai sensi dell’articolo 1464 del codice civile, comporterebbe che solo il creditore potrà decidere di recedere dal contratto allorché non abbia interesse all’adempimento parziale.
In secondo luogo, la Relazione esamina altresì l’istituto dell’eccessiva onerosità sopravvenuta. A tal proposito, la Suprema Corte riconosce come le misure di contenimento possano aver sbilanciato l’economia del negozio giuridico. Ciononostante, la Corte chiarisce altresì che l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione non impedisce l’attuazione dell’interesse perseguito dal negozio giuridico, bensì “essa trova, invece, fondamento nell’esigenza di contenere entro limiti di normalità l’alea dell’aggravio economico della prestazione, proteggendo la parte dal rischio di un eccezionale aggravamento economico di quest’ultima per gravi cause di turbamento dei rapporti socio-economici” [5].
Pertanto, viene espressamente riconosciuto come, in tutti i settori commerciali e produttivi, l’emergenza sanitaria, economica e sociale causata dal diffondersi del Covid-19 abbia causato (e continua a causare) conseguenze ben oltre la normale alea del contratto caratterizzate da straordinarietà, imprevedibilità e inevitabilità tali da legittimare la parte pregiudicata ad agire in giudizio per la risoluzione del contratto.
Fermo quanto sopra, anche relativamente al rimedio in esame la Corte evidenzia un forte limite: la sua natura demolitoria e non conservativa del contratto. Difatti “il rimedio è volto a rimuovere il vincolo, non a riequilibrare il sinallagma. Pertanto finisce per fare terra bruciata delle relazioni d’impresa come di quelle fra privati cittadini, in quanto conduce alla definitiva risoluzione del rapporto, non alla transitoria riduzione dei corrispettivi, che l’art. 1467 c.c. alla lettera non contempla” [6]. Ciò difficilmente è l’obbiettivo del contraente sfavorito: “Soltanto la parte favorita dallo sbilanciamento, può infatti evitare la risoluzione del negozio, offrendo di modificare equamente le condizioni di esso (art. 1467, comma 3, c.c.).” [7].
Per riprendere un importante passaggio nel ragionamento della Suprema Corte “L’emergenza non si tampona demolendo il contratto. Più che la liberazione del debitore-imprenditore dall’obbligazione, cruciali appaiono l’attenuazione o il ridimensionamento del contenuto di questa, ove il suo adempimento sia ostacolato o reso sfibrante dalle misure di contenimento su approvvigionamenti, circolazione di merci, organizzazione aziendale, vieppiù ove si consideri che dette misure sono turbinosamente adottate a vari livelli (nazionale, regionale, comunale) nell’ottica di contrastare il dilagare del contagio” [8].
2.2 Inadempimento della prestazione e impotenza finanziaria
Tra le svariate conseguenze che l’emergenza sanitaria ha avuto (e continua ad avere) sul sistema mondiale non può trascurarsi l’importante crisi economico-finanziaria che, tra l’altro, si è tradotta in una forte contrazione dei consumi. Seppur tale contrazione ha sicuramente raggiunto il culmine durante la fase di cd. lockdown, è verosimile che tale situazione proseguirà nel prossimo futuro, discendendo da una crisi economico-finanziaria che sta coinvolgendo l’intero sistema globale.
Il ridimensionamento dei consumi ha comportato, per tutte le aziende impattate negativamente dalla situazione, una drastica contrazione del fatturato, limitando dunque la liquidità disponibile che si è riflessa sulla regolare esecuzione delle obbligazioni pecuniarie.
Nonostante la situazione di grave difficoltà, la Corte sottolinea che, giuridicamente, “il mancato o tardivo pagamento di somme dovute rimane, allo stato e in linea di principio, ingiustificato e imputabile” [9].
Difatti, prosegue la Suprema Corte, “pur nel quadro costituzionale del principio solidaristico, il concetto di impossibilità della prestazione non ricomprende, infatti, la c.d. impotenza finanziaria, per quanto determinata dalla causa di forza maggiore in cui si compendia l’attuale emergenza sanitaria” [10].
Come già anticipato, non può esservi impossibilità oggettiva e assoluta di procurarsi il denaro per adempiere, essendo il denaro un bene fungibile e imperituro.
Pertanto, eventuali difficoltà nel reperire liquidità per far fronte alle proprie obbligazioni sono un rischio che si assume il debitore e che non può, come evidenziano gli ermellini, impattare sulle sfere economico-giuridiche dei suoi creditori.
2.3 Intervento emergenziale del legislatore
È bene ricordare che, nell’affrontare dunque le ripercussioni che l’emergenza epidemiologica ha comportato per le attività commerciali e produttive, il legislatore ha chiarito, all’articolo 91, paragrafo 1, del Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020 (il “Decreto Cura Italia”), che il rispetto delle misure di contenimento deve sempre essere valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti [11].
Considerata l’ambiguità della norma in esame, risulta dunque di grande importanza quanto illustrato dalla Suprema Corte che distingue due piani: (a) la responsabilità del debitore inadempiente a causa della necessità di rispettare le misure di contenimento sembrerebbe elisa già in virtù dell’art. 1218 c.c.; (b) la norma non esclude tout court la responsabilità “da adeguamento” alle misure “anti-Covid”, piuttosto stabilendo che il rispetto di queste sia “sempre valutato” ai fini del giudizio di responsabilità.
Pertanto, appare subito chiaro che lo sforzo materiale ed economico dell’impresa ad adattarsi alle prescrizioni sanitarie non funge da esimente automatica dell’inadempimento, ma deve in ogni caso essere apprezzata dal giudice nel più ampio giudizio sulla responsabilità.
La Corte esamina anche il caso del debitore che rimanga inerte e inadempiente, non in ragione dell’osservanza di una misura di contenimento, bensì in forza di una sua percezione soggettiva che culmina nel timore che l’esecuzione della prestazione possa mettere a repentaglio l’incolumità sua o dei suoi collaboratori. Anche in questo caso, considerando che spetta all’autorità (e non al singolo debitore) valutare i rischi epidemiologici, un eventuale inadempimento, seppur dettato da nobili ragioni, non sarebbe giustificato e costituirebbe, a tutti gli effetti, un inadempimento imputabile.
La Suprema Corte afferma quindi che l’alleggerimento dell’onere probatorio a carico del debitore sancito dal legislatore opera semplicemente imponendo al giudice di non negare ex se che la necessità di adeguarsi alle prescrizioni “anti-Covid” sia idonea a costituire “causa non imputabile” all’inadempiente, dovendo quindi prendere atto di tale circostanza nelle proprie valutazioni.
Sarà comunque il debitore a dover dimostrare il nesso causale tra l’inadempimento e il rispetto delle misure restrittive, essendo però sufficiente provare che sono state tali misure ad aver bloccato la prestazione, vietando o ritardando un’attività. Ciò è comprensibile in quanto spostare l’onere probatorio sul creditore non sarebbe stato possibile in quanto afferente a circostanze che esulano dalla sfera di azione del creditore medesimo (è il debitore a conoscere i dettagli della propria organizzazione interna e i relativi ostacoli).
Infine, la Corte esamina altresì il caso delle obbligazioni di dare, relativamente alle quali è possibile che l’adeguamento alle prescrizioni impedisca l’esecuzione solo di parte della prestazione. In tale ipotesi, il debitore potrà offrire solo la parte di prestazione non affetta da impossibilità, salva la facoltà del creditore di rifiutare l’adempimento parziale ai sensi dell’articolo 1181 del codice civile [12]. Ciononostante, qualora il creditore accetti di ricevere una prestazione parziale, questi potrà a sua volta sospendere parzialmente il proprio adempimento (purchè in simmetria rispetto al valore dell’altrui adempimento parziale), sollevando un’eccezione parziale di inadempimento e purchè nel pieno rispetto del principio di buona fede.
2.4 Conservazione e rinegoziazione del contratto
Come si è avuto modo di anticipare nei paragrafi che precedono, i rimedi previsti dal legislatore sono rimedi ablativi del contratto e non manutentivi. Essi, difatti, non prevedono la rinegoziazione del contratto, fatto salvo solo il caso dell’eccessiva onerosità sopravvenuta ove, tuttavia, la facoltà di evitare la risoluzione spetta alla parte “beneficiata” e non a quella che subisce l’eccessiva onerosità.
La Corte, ha quindi voluto enfatizzare che l’emergenza in atto ha messo in luce come il principio della vincolatività del contratto si presti ad essere assolutizzato qualora, per effetto di circostanze successive alla stipulazione del contratto o comunque al tempo ignote o, ancora, estranee alla sfera di controllo delle parti, l’equilibrio del rapporto si mostri sostanzialmente snaturato.
Da ciò è inoltre emerso come, a differenza di quanto spesso accade nei contratti afferenti rapporti tra parti italiane, nei contratti internazionali è frequente l’uso di clausole (es. hardship clause, force majeure clause) che mirano, invece, a regolare sin da subito eventuali situazioni eccezionali che possano minare l’equilibrio del rapporto, prevedendo appositi e specifici rimedi che non comportano necessariamente, quale prima soluzione, la risoluzione del rapporto stesso. Difatti, tali clausole tendono a prevedere un’iniziale sospensione dell’esecuzione del contratto o, addirittura, la rinegoziazione dello stesso.
Se è pur vero che il rimedio offerto dal codice civile in caso di eccessiva onerosità sopravvenuta è un rimedio che permette la manutenzione del contratto solo alla parte che beneficia dello squilibrio è altresì vero che tale rimedio comunque manifesta l’interesse dell’ordinamento alla conservazione del contratto stesso.
La Corte afferma inoltre che nell’affrontare il tema in esame non sembra agevole il ricorso alla nozione di causa in concreto in quanto “lo svolgimento dell’attività di impresa non è lo scopo diretto dei contratti strumentali al suo esercizio. Il rischio e il lucro costituiscono finalità estranee benché non ignote ad uno dei due contraenti e non entrano, pertanto, nel perimetro causale. Né, in difetto di un diretto scopo comune, rileva la figura della presupposizione” [13].
Stanti tali premesse, ove le parti non abbiano convenzionalmente regolato la gestione di eventuali sopravvenienze, è necessario fondare l’obbligo di rinengoziazione su una base diversa.
In tal senso, la Corte richiama l’articolo 1374 del codice civile [14] in quanto significativo nel tratteggiare l’intervento diretto sul contratto squilibrato da parte del giudice, in ossequio ad un principio di eterointegrazione correttiva del contratto secondo equità, evidenziando altresì che “il dovere di correttezza contrattuale non è soltanto una clausola generale destinata a regolare le trattative, la conclusione, l’interpretazione e l’esecuzione del rapporto, ma è anche una fonte di integrazione del contratto” [15].
Come detto, l’articolo 1467 del codice civile dà risalto normativo agli eventi straordinari e imprevedibili che sconvolgono l’economia del contratto configurando quindi un principio generale di preservazione dell’equilibrio del contratto, principio che può tradursi nello scioglimento del negozio, ovvero nella sua riconduzione ad equità attraverso una rinegoziazione.
Tale articolo contiene una norma dispositiva e, come tale, derogabile, sia dalla volontà delle parti che dalle norme imperative di legge nel cui novero si inscrive proprio il precetto che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede (articoli 1175 [16] 1374 e 1375 [17] del codice civile).
Pertanto, gli ermellini sottolineano come “la buona fede rappresenta un importante metro di approccio alle problematiche correlate all’esecuzione del contratto, possedendo valore d’ordine pubblico, collocandosi fra i principi portanti del nostro ordinamento sociale e rivelando un fondamento etico che trova rispondenza nell’idea di una morale sociale attiva o solidale” [18].
Ricorda infatti la Corte come in passato la stessa sia giunta a ravvisare nella buona fede la regola di governo della discrezionalità nell’esecuzione del contratto, in quanto principio che assicura che detta fase si realizzi in armonia con quanto emerge dalla ricostruzione dell’operazione economica che le parti avevano inteso porre in essere.
Relativamente invece al dovere di correttezza, la Suprema Corte afferma come lo stesso venga considerato quale limite interno ad ogni situazione giuridica soggettiva, evitando che l’ossequio alla legalità formale si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale così disattendendo il dovere costituzionale di solidarietà [19] che, applicato ai contratti, ne determina integrativamente il contenuto o gli effetti e deve orientarne sia l’interpretazione che l’esecuzione.
Pertanto, la portata sistematica della buona fede oggettiva nella fase esecutiva del contratto ex articolo 1375 del codice civile postula la rinegoziazione quale step necessario per l’adattamento del contratto alle circostanze ed esigenze sopravvenute.
Per citare la Suprema Corte, “Il venir meno dei flussi di cassa è un contagio diffuso, rispetto al quale la terapia non è la cesura del vincolo negoziale, ma la sospensione, postergazione, riduzione delle obbligazioni che vi sono annesse.[…] La clausola generale di buona fede diviene, in questa prospettiva, garanzia di un comportamento corretto nella fase di attuazione delle previsioni contrattuali. In virtù della valutazione economico-giuridica del criterio della bona fides e degli obblighi di cooperazione fra le parti nella fase esecutiva del contratto, l’adeguamento del contenuto di quest’ultimo connesso all’obbligo di rinegoziare non contraddice l’autonomia privata, in quanto adempie alla funzione di portare a compimento il risultato negoziale prefigurato ab initio dalle parti, allineando il regolamento pattizio a circostanze che sono mutate” [20].
Non solo. Anche l’interpretazione del contratto secondo buona fede, ai sensi dell’art. 1366 del codice civile [21], ben si presta nell’individuazione di un obbligo a rinegoziare. Difatti, sulla base di tale disposto normativo “è possibile ipotizzare che le parti, se ne fossero state a conoscenza, avrebbero comunque trattato sulla base delle condizioni sopravvenute, dal momento che si sarebbe rivelata irrazionale una negoziazione impostata su una situazione di mercato non rispondente alla realtà. Ne discende che il rifiuto a rinegoziare della parte, ex art. 1375 c.c. si risolve in un comportamento opportunistico che l’ordinamento non può tutelare e tollerare” [22].
L’obbligo di rinegoziare imporrebbe dunque un obbligo ad avviare nuove trattative e a concluderle correttamente ma non necessariamente a concludere un contratto modificativo. Pertanto, come ben evidenza la Corte, “la parte tenuta alla rinegoziazione è adempiente se, in presenza dei presupposti che richiedono la revisione del contratto, promuove una trattativa o raccoglie positivamente l’invito di rinegoziare rivoltole dalla controparte e se propone soluzioni riequilibrative che possano ritenersi eque e accettabili alla luce dell’economia del contratto; di sicuro non può esserle richiesto di acconsentire ad ogni pretesa della parte svantaggiata o di addivenire in ogni caso alla conclusione del contratto, che, è evidente, presuppone valutazioni personali di convenienza economica e giuridica che non possono essere sottratte né all’uno, né all’altro contraente” [23].
3. Conclusioni
Alla luce delle valutazioni sopra esposte, si sintetizzano le conclusioni [24] cui la Suprema Corte è giunta a valle di fini ragionamenti sugli istituti, e sulla ratio sottesa agli stessi, posti a tutela delle parti per far fronte a sopravvenienze del contratto quali quelle cagionate dall’emergenza sanitaria da Covid-19:
- ove il sinallagma sia stravolto dalla pandemia in atto e la parte avvantaggiata disattenda gli obblighi di protezione nei confronti dell’altra, riconoscere a quest’ultima solo la risoluzione e il risarcimento del danno comporterebbe la demolizione del rapporto contrattuale, soluzione che tanto il principio di buona fede quanto il già discusso obbligo di rinegoziare cercano di evitare;
- in tale situazione si giustificherebbe dunque l’intervento del giudice di integrazione del rapporto divenuto iniquo. Tale intervento sarebbe da ritenersi ammissibile ogni qual volta dal regolamento negoziale dovessero emergere i termini in cui le parti hanno inteso ripartire il rischio derivante dal contratto;
- al di fuori di tale ipotesi, la determinazione del contenuto del contratto appartiene alla sola sfera decisionale delle parti;
- in ogni caso, qualora si ravvisi l’obbligo delle parti a rinegoziare, si potrebbe ipotizzare che il mancato adempimento di esso non comporti solo il risarcimento del danno, ma esponga altresì all’esecuzione in forma specifica ex articolo 2932 del codice civile [25]. Pertanto, al giudice potrebbe essere riconosciuto il potere di sostituirsi alle parti pronunciando una sentenza che tenga luogo dell’accordo di rinegoziazione non concluso, determinando in tal modo la modifica del contratto originario;
- naturalmente, in questo caso, la valutazione del giudice dovrà necessariamente calibrarsi su elementi rigorosamente espressi dal medesimo regolamento negoziale. È chiaro che questa impostazione presuppone che sia possibile, nel caso di specie, predeterminare l’esito puntuale cui sono finalizzate le trattative. Emerge, quindi, l’urgenza di individuare un parametro cui adeguare il contratto, il che non costituisce operazione semplice. Centrale risulterà quindi la valutazione, da parte del giudice, dell’attività di contrattazione svolta dalle parti prima che il processo di rinegoziazione si interrompa, potendo residuare da esso spiccati elementi per decidere.
Alla luce delle considerazioni sopra svolte, la Suprema Corte arriva quindi ad affermare che la parte oberata dalla sopravvenienza verrebbe quindi anch’essa dotata del potere d’invocare la riduzione a equità del contratto squilibrato che spetterebbe, nei contratti onerosi, a controparte.
A cura di Lorena Possagno, Filippo Federici e Giulia D’Auria.
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[1] La presente disamina tratta unicamente le tematiche afferenti alla gestione dei contratti commerciali non trattandosi, dunque, gli ulteriori profili esaminati nella Relazione quali, ad esempio, il tema delle procedure concorsuali.
[2] Per impossibilità sopravvenuta della prestazione si intende una qualsiasi situazione impeditiva dell’adempimento non prevedibile e non superabile tramite lo sforzo che può essere legittimamente richiesto al debitore. Qualora infatti la parte inadempiente dimostri che l’inadempimento è stato conseguenza dell’impossibilità di eseguire la prestazione per “causa a lui non imputabile”, questi può essere ritenuto non responsabile. L’impossibilità sopravvenuta può essere (i) definitiva o temporanea; e (ii) assoluta o parziale. Verificati tali presupposti, l’obbligazione contrattuale divenuta impossibile (a) si estingue, con conseguente risoluzione di diritto (totale o parziale) del contratto, ove tale impossibilità sia assoluta e definitiva; o (b) può essere legittimamente sospesa, ove tale impossibilità sia solo temporanea. Ove la prestazione sia direttamente impedita dai provvedimenti legislativi intrapresi dal governo per fronteggiare l’attuale situazione emergenziale, può altresì configurarsi la fattispecie della cd. impossibilità sopravvenuta per factum principis, definito quale causa di impossibilità oggettiva ad effettuare una prestazione derivante da un sopravvenuto atto o provvedimento della pubblica autorità (es. l’obbligo si sospendere le attività produttive e commerciali). Trattandosi di un’impossibilità oggettiva, non occorrerà valutare la ricorrenza dei caratteri propri dell’impossibilità, ma si applicheranno direttamente le sopracitate norme sull’impossibilità sopravvenuta.
[3] L’istituto dell’eccessiva onerosità sopravvenuta consente invece la risoluzione di contratti il cui equilibrio sia modificato da avvenimenti sopravvenuti – straordinari e non ragionevolmente prevedibili al momento della conclusione del contratto – che non rientrano nell’ambito della normale alea contrattuale e che rendono una delle prestazioni sottese al contratto eccessivamente onerosa o oggettivamente svilita nel proprio valore e/o nella propria utilità. La controparte interessata a mantenere in essere il contratto potrà evitare la risoluzione offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto.
[4] Cfr. Relazione, pagina 2.
[5] Cfr. Relazione, pagina 5.
[6] Cfr. Relazione, pagina 6.
[7] Cfr. Relazione, pagina 6.
[8] Cfr. Relazione, pagina 6.
[9] Cfr. Relazione, pagina 7.
[10] Cfr. Relazione, pagina 7.
[11] Ai sensi dell’articolo 91, comma 1, del Decreto Cura Italia, “All’articolo 3 del d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con modificazioni dalla l. 5 marzo 2020, n. 13, dopo il comma 6, è inserito il seguente: «6-bis. Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
[12] Art. 1181 c.c.: “Il creditore può rifiutare un adempimento parziale anche se la prestazione è divisibile, salvo che la legge o gli usi dispongano diversamente”.
[13] Cfr. Relazione, pagina 20.
[14] Art. 1347 c.c. “Il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità.”
[15] Cfr. Relazione, pagina 21.
[16] Art. 1175 c.c. “Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza”.
[17] Art. 1375 c.c. “Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede”.
[18] Cfr.Relazione, pagine 21-22.
[19] Si veda articolo 2 della Costituzione ai sensi del quale “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.”
[20] Cfr.Relazione, pagina 23.
[21] Cfr.Relazione, pagina 24.
[22] Cfr.Relazione, pagina 24.
[23] Cfr.Relazione, pagina 25.
[24] Cfr. Relazione, pagine 26-28.
[25] Art. 2932 c.c. “Se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie l’obbligazione, l’altra parte, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso. Se si tratta di contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata o la costituzione o il trasferimento di un altro diritto, la domanda non può essere accolta, se la parte che l’ha proposta non esegue la sua prestazione o non ne fa offerta nei modi di legge, a meno che la prestazione non sia ancora esigibile.”