Mediazione obbligatoria e su ordine del giudice: il sistema italiano
Negli ultimi sei anni, l’ordinamento italiano ha sperimentato una normativa sulla mediazione civile e commerciale che non ha eguali in altre giurisdizioni. Nel marzo del 2011, il D.Lgs. 28/2010 è infatti entrato in vigore anche nella parte in cui prevedeva l’esperimento di un tentativo di mediazione quale condizione di procedibilità per proporre un’azione in determinate materie contenziose. Dopo un’interruzione dell’obbligatorietà di circa un anno tra il 2012 e il 2013, dovuta alla pronuncia di incostituzionalità per eccesso di delega, e dopo la ridefinizione delle materie obbligatorie, si stima che oggi circa l’8% delle cause civili debbano essere sottoposte preliminarmente a mediazione. Ciò ha fornito una base di esperienze e di dati piuttosto consistente.
Quello che però ha sorpreso negativamente della riforma, è che non siano state destinate risorse alla promozione della mediazione, e si sia confidato nella creazione spontanea di un mercato misto pubblico e privato per la prestazione dei servizi di mediazione. Gli enti pubblici (e in particolare gli ordini degli avvocati locali, gli albi professionali, e soprattutto le camere di commercio) sono ritenuti automaticamente idonei a costituire un ente di mediazione, mentre gli enti privati devono sottoporsi a una procedura di accreditamento. I prezzi dei servizi di mediazione sono rimessi all’esame del Ministero della giustizia, e si sono collocati in un range piuttosto basso, per promuovere la mediazione e attrarre “clienti”. I costi accessibili, insieme ai tempi ridotti, sono del resto una delle caratteristiche che la mediazione obbligatoria deve avere per non essere considerata incompatibile con il diritto ad agire in giudizio[1].
Per quale ragione le parti dovrebbero risolvere una controversia in mediazione? Oltre ad alcuni motivi già noti (tempi ridotti, mantenimento delle relazioni commerciali), il legislatore italiano voleva essere sicuro che anche i costi fossero allettanti, dal momento che le spese giudiziarie nel nostro paese non sono particolarmente elevate rispetto agli altri paesi dell’Unione. Inoltre, era necessario assicurarsi che l’accordo transattivo raggiunto in mediazione fosse direttamente eseguibile, proprio come un lodo arbitrale, e che le parti che rifiutassero di partecipare nell’incontro preliminare senza un giustificato motivo, potessero essere sanzionate dal giudice nel successivo giudizio, con il pagamento di spese giudiziarie raddoppiate o di una somma a titolo di sanzione.
Il dibattito sulla mediazione obbligatoria è stato particolarmente acceso. Le associazioni rappresentative degli avvocati e il Consiglio Nazionale Forense hanno manifestato il loro scontento in forme decisamente vivaci. I difensori della mediazione obbligatoria erano disponibili ad ammettere che obbligare a mediare non fosse una soluzione ottimale, ma sostenevano che nel breve-medio termine si trattava dell’unica soluzione per promuovere la mediazione nel sistema giudiziario. Non è un caso che anche il numero delle mediazioni volontarie, in questo modo, sia notevolmente aumentato, visto che queste ora rappresentano circa il 10% del volume complessivo delle procedure presso gli enti di mediazione. Il trend positivo riguarda anche le mediazioni condotte su ordine del giudice, che ora superano per numero anche le mediazioni volontarie, mentre nei primi anni si attestavano su percentuali molto modeste (2-3%).
Si ipotizza che la mediazione sia tra i fattori per cui le statistiche giudiziarie hanno segnato negli ultimi 5 anni un miglioramento, con una durata dei processi più contenuta, e con il numero di casi pendenti in diminuzione, dai 6 milioni circa del 2009, ai 4,5 milioni del 2016. Il complessivo miglioramento delle statistiche giudiziarie ha consentito all’Italia di guadagnare 11 posizioni nei ranking internazionali dell’imprenditorialità (Doing Business 2016). Anche se non è possibile sapere con certezza, complice la crisi economica e l’aumento delle tasse giudiziarie, se in questi anni il contenzioso sia diminuito proprio grazie alla mediazione, è un fatto che, nelle controversie soggette al tentativo obbligatorio di mediazione, il calo delle iscrizioni a ruolo sia stato particolarmente significativo (-16%).
Ci sono tuttavia alcuni rilievi critici, rispetto a come la legislazione italiana ha dato attuazione alla direttiva europea. In primo luogo, la controparte accetta di presentarsi davanti al mediatore e di andare oltre il primo incontro preliminare in meno della metà dei casi in cui viene presentata una domanda di mediazione (46,3%). Considerando che le statistiche sul raggiungimento dell’accordo hanno tassi analoghi, arriviamo ad una stima per cui solo una controversia su cinque è risolta in via conciliativa. Nonostante il lieve miglioramento dei tassi di successo nell’ultimo periodo, si tratta di un risultato non pienamente soddisfacente. Nelle ricerche empiriche sulla mediazione, infatti, le analisi più affidabili indicano tassi di risoluzione che si aggirano attorno al 50-60%, o comunque significativamente più alti. Occorre dunque chiedersi se gli oneri imposti su una percentuale significativa delle parti in conflitto, per quanto ridotti, giustifichino un risultato tutto sommato modesto, e se questo tasso non sia dovuto anche a come è stata strutturata la riforma. In molte situazioni, le dispute inviate in mediazione, al di là della disponibilità delle parti e della bravura dei mediatori, non sono necessariamente le più idonee a essere mediate. Alcuni giudici, ad esempio, utilizzano l’ordine di mediare in maniera burocratica e deresponsabilizzante, senza motivare la loro richiesta, e dunque senza incentivare le parti a impegnarsi in buona fede per il raggiungimento di una soluzione. La mediazione su ordine del giudice è infatti la procedura conciliativa che ha meno probabilità di portare a un accordo. Il tasso di transazione (15%) è ancora più basso che nella mediazione obbligatoria per materia (22%).
Tra gli aspetti critici della riforma vi è certamente anche il problema degli incentivi ai mediatori. Senza un sistema formativo ben rodato, e senza una concreta aspettativa di gratificazione professionale, è improbabile che la mediazione arrivi mai a una completa maturità. Partiamo anzitutto dalla formazione e dall’accreditamento dei mediatori. Per diventare mediatori civili e commerciali e svolgere mediazioni secondo il D.Lgs. 28/2010 (anche se è lecito muoversi al di fuori di questo quadro normativo), occorre avere superato positivamente un corso di 52 ore. A questo punto non è comunque possibile svolgere autonomamente mediazioni, perché i procedimenti devono essere gestiti da un ente accreditato, che offra garanzie patrimoniali e organizzative. Spetta dunque agli enti selezionare i mediatori accreditati e conferire gli incarichi di mediazione. Naturalmente è ben possibile per un mediatore non accreditato in Italia (ad esempio un bravo mediatore straniero) negoziare una transazione, ma questo non varrà a soddisfare la condizione di procedibilità nelle materie obbligatorie, e un eventuale accordo non godrà dell’esecutorietà e dei benefici fiscali previsti dalla normativa.
La riforma della mediazione, con l’intento apprezzabile di promuovere l’utilizzo, pur affidandosi nelle intenzioni al mercato ha di fatto compresso verso il basso le tariffe dei servizi, e per contro non ha sovvenzionato in alcun modo gli enti. Ha dunque creato un notevole flusso di lavoro, ma a prezzi calmierati e a costo zero per le finanze pubbliche. Il risultato è che oggi i mediatori civili e commerciali lavorano virtualmente pro-bono. Nei primi anni dopo la riforma è stato formato e accreditato un numero di mediatori superiore alle richieste, e dunque anche quelli professionalmente più affermati non svolgono più di una manciata di mediazioni all’anno. Si tratta per la maggior parte di avvocati o commercialisti che per hobby, o per la sfida e la soddisfazione di intraprendere una professione nuova, ritagliano nel loro lavoro alcune giornate per risolvere i casi assegnati dagli enti. Considerato che il valore mediano delle dispute trattate in mediazione è di 17.500 euro, e che il compenso da dividere con l’ente di mediazione è sempre parametrato al valore della controversia, i professionisti che oggi, in Italia, possono vivere del reddito prodotto dai servizi di mediazione, si contano sulle dita di una mano.
Il panorama della mediazione è comunque fluido e vivace. Tra i problemi della riforma del 2010, vi sono ancora i notevoli ostacoli strutturali e organizzativi per gli enti di mediazione e i mediatori. Questi ostacoli rendono la mediazione uno strumento solo parzialmente efficace. Tra di essi, in particolare, c’è la pretesa di fare funzionare la mediazione a costo zero, e la conseguente frustrazione e demotivazione di molti mediatori, che non sono in grado di fare valere la propria professionalità. Tra gli aspetti positivi, vi è invece il fatto che la mediazione è definitivamente entrata nel mainstream legale, e che giudici e avvocati hanno in larga parte compreso i vantaggi e le potenzialità dello strumento. La commissione ministeriale incaricata di formulare una proposta di revisione del D.Lgs. 28/2010 ha suggerito di estendere il ricorso alla mediazione obbligatoria per altri sei anni (fino al 2023), e di includere nelle materie soggette ad obbligatorietà anche i contratti “di durata”, e altri rapporti che necessitano di una risoluzione rapida e riservata (contratti d’opera e d’opera professionale, di appalto, di franchising, di leasing, di fornitura e somministrazione, concorrenza sleale, trasferimento di partecipazioni sociali di società di persone), escludendo contestualmente ogni disputa commerciale di competenza del Tribunale delle imprese il cui valore sia superiore ai 250.000 Euro. Altra modifica significativa proposta dalla Commissione è l’obbligo per il giudice di motivare l’ordine di mediare una controversia, e l’eliminazione della gratuità nel primo incontro di mediazione.
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[1] Sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (Quarta Sezione) del 18 marzo 2010. Rosalba Alassini contro Telecom Italia SpA (C-317/08), Filomena Califano contro Wind SpA (C-318/08), Lucia Anna Giorgia Iacono contro Telecom Italia SpA (C-319/08) e Multiservice Srl contro Telecom Italia SpA (C-320/08).