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    22.06.2020

    Brexit, l'accordo con l'Ue è tutt'altro che vicino


    Le trattative continuano, ma l'ipotesi di un'Hard Brexit non è affatto accantonata

    di Alberto Grifone

     

    Si fa sempre più concreta la possibilità che al 31 dicembre 2020 l'Ue e l'Inghilterra non raggiungano alcun accordo, con conseguente hard Brexit e ripercussioni potenzialmente dannose per le relazioni economiche e commerciali con l'ex partner. Una speranza potrebbe essere l'onda lunga della pandemia Covid-19, dal momento che con la grave crisi economica conseguente al lockdown mondiale, i sudditi di Sua maestra potrebbero chiedere un ulteriore rinvio. Affari Legali ha sentito i principali studi italiani ed esteri che lavorano con Londra per capire quali sono le loro aspettative. «Apparentemente il governo britannico è contrario a qualsiasi forma di ulteriore estensione delle trattative dopo il 31 dicembre 2020, termine dell'attuale periodo di transizione. Se questa posizione dovesse rimanere ferma, la possibilità di un «no deal» è piuttosto alta poiché sembra che le trattative, già di per sé complesse, siano state fortemente rallentate dalla pandemia», spiega Madeleine Horrocks, partner del dipartimento Banking & Finance di Orrick Italia. «Per il momento, come concordato nell'Accordo di recesso, il Regno Unito continuerà ad applicare la normativa europea (anche quella che sarà emanata nel 2020), ivi compresa la disciplina civilistica e commerciale, e l'Ue tratterà il Regno Unito alla stregua di uno stato membro, salvo per la partecipazione alle istituzioni e alle strutture di governance dell'Ue». «La finanza e il mercato dei capitali stanno subendo una trasformazione che al momento si rivela armoniosa», aggiunge Horrocks. «Londra era la piazza finanziaria principale fino a pochi anni fa, mentre ora è in atto un processo di decentramento verso altri hub come Francoforte, Parigi, Dublino e ovviamente Milano. Questa transizione porta con sé, soprattutto in questo periodo di incertezza, un incremento delle operazioni di emissioni obbligazionarie o di finanziamento governate da leggi nazionali e non più solo dal diritto inglese. Ma ritengo che quest'ultimo rimarrà una lex mercatoria internazionale fortemente apprezzata nel mondo del finance e del debt capital markets grazie alla sua versatilità, trasparenza e ai tempi brevi nell'ottenimento delle sentenze».

     

    Secondo Raimondo Premonte e Marco Zaccagnini, entrambi partner della sede londinese dello studio legale Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners, «vista la complessità della situazione è verosimile che la filosofia del Regno Unito alla fine prevalga, e dopo un primo accordo generale di libero scambio concluso nel periodo di proroga (che potrebbe essere in linea con quelli recentemente conclusi dall'Ue con Canada e Giappone), scongiurata l'ipotesi di hard Brexit, le parti procederanno alla definizione di accordi di settore anche successivamente alla scadenza della proroga. Uno dei settori più impattati è quello dei servizi finanziari, nel quale ci attendiamo, almeno nei primi tempi, una contrazione delle attività cross-border dal Regno Unito. Tuttavia si presenteranno opportunità interessanti per i nostri clienti ed il nostro paese nel medio termine».

     

    Secondo Laura Tredwell, managing associate di Deloitte Legal Italy «un no-deal al 31 dicembre 2020 rimane lo scenario più realistico. A nostro avviso, una proroga sarebbe auspicabile dato che un no-deal impatterebbe in modo significativo molti operatori economici che si trovano già in difficoltà per il contesto economico e finanziario affl itto dalle ripercussioni di una pandemia mondiale. Il rinvio potrebbe far tirare un sospiro di sollievo anche a numerosi imprenditori, facendoli beneficiare della normativa europea ancora applicabile nel periodo transitorio. Pensiamo a quelle aree commerciali dipendenti dall'import-export con il Regno Unito oppure a tutti i gruppi di società aventi delle sedi in Uk. La disapplicazione della normativa europea implicherebbe costi di transizione tali da indurre forse la società madre a smantellare o dislocare queste sedi». «L'Italia, come gli altri stati membri, non sfugge certo all'incertezza di questo contesto», aggiunge Tredwell. «Anche i nostri clienti stiamo suggerendo di prepararsi ad affrontare le conseguenze di un no-deal. Riteniamo infatti che chiunque intenda continuare o iniziare un rapporto commerciale con il Regno Unito debba implementare meccanismi preventivi e debba iniziare anche a capire quali accordi o trattati di natura extraeuropea si applicherebbero al proprio caso una volta confermato il no-deal. Per esempio, prendiamo l'ambito della proprietà intellettuale. In caso di no-deal, infatti, i diritti di proprietà intellettuale depositati o registrati ai sensi della legislazione europea cesseranno di produrre i propri effetti nel Regno Unito. Tuttavia, sembra che l'Intellectual Property Office abbia deciso di prevedere un'automatica registrazione nazionale per i marchi e i design europei già concessi. E invece per quanto riguarderà i marchi e i design le cui domande di registrazione risulteranno ancora pendenti al momento del no-deal? In questo caso, il titolare della domanda sembra che debba seguire la procedura di registrazione nazionale inglese. Proprio a fronte delle molteplici casistiche e della dilagante incertezza di cui parlavamo risulta necessario giocare d'anticipo in qualsiasi ambito» chiosa.

     

    Di opinione diversa Eugenio Tranchino, head di Watson Farley & Williams Wfw Italia e responsabile dei dipartimenti corporate ed energy dello studio, secondo il quale «le possibilità di un accordo su una proroga, che ricordo può essere sino ad uno o due anni, e deve essere raggiunto entro la fine del mese di giugno 2020, sono tutt'altro che remote. Invero, sebbene l'accordo di uscita si prefigga la definizione di una «partnership ambiziosa, ampia, profonda e flessibile» i punti ostici del negoziato, iniziato il 2 marzo, sono molteplici e con ricadute significative sull'economia britannica con particolare riguardo agli aspetti economici dell'accordo, primi tra tutti gli obblighi di liquidazione finanziaria che ammonterebbero, secondo le stime dell'Unione, a circa 45-60 miliardi. Secondo le autorità di Londra il contraccolpo sull'economia inglese potrebbe aggirarsi attorno ai 36 miliardi di sterline e, considerati gli effetti della Pandemia Covid-19 che hanno visto la Gran Bretagna soffrire più degli altri paesi nord europei, la possibilità di un'estensione del termine ed un negoziato volto a favorire le reciproche istanze attraverso posizioni più conciliative da parte di entrambe le Parti sembra essere la soluzione più probabile».

     

    Secondo Roberto Egori, tax partner, e Anna Ferraresso, financial regulation managing associate in Linklaters, «per i servizi finanziari il tema cruciale è l'equivalenza su cui l'Europa dovrebbe esprimersi già entro la fine del prossimo mese (giugno 2020), ma anche sotto questo profilo non c'è ancora certezza. Le divergenze infatti sembrano riguardare in questo caso il processo di revoca della stessa. Anche sul piano fiscale i nodi da sciogliere per gli operatori finanziari del Regno Unito non sono pochi. Si tratterà di comprendere il regime che si applicherà in termini di ritenute su dividendi, la spettanza dell'esenzione da ritenuta su interessi su finanziamenti a medio/lungo termine, il regime delle ritenute su passive income per le holding, l'applicabilità dell'imposta sostitutiva sui finanziamenti a medio/lungo termine da parte delle banche inglesi, nonché le molteplici ricadute in termini di Tobin Tax». Secondo Roberto A. Jacchia, partner di De Berti Jacchia Franchini Forlani Studio Legale, «la crisi coronavirus rischia di pregiudicare la continuità dei negoziati in corso. Alla fine del periodo di transizione le relazioni tra le parti subiranno modifiche profonde qualora non si dovesse raggiungere un accordo in tempo utile. Ciò potrà comportare pesanti conseguenze in diversi settori-chiave». Ad esempio, per quanto riguarda i medicinali per uso umano e veterinario, il Regolamento 726/2004 non sarà più applicabile nel Regno Unito, e pertanto, per continuare a commercializzare in Europa i propri prodotti il titolare britannico di un'autorizzazione all'immissione in commercio (Aic) dovrà averla trasferita a un titolare stabilito nell'Unione entro il 31 dicembre 2020. Oppure, per la protezione dei diritti dei passeggeri, le norme europee in materia di trasporto aereo si applicheranno a quelli in partenza dal Regno Unito soltanto qualora il vettore possieda una licenza di esercizio rilasciata da uno stato membro. «Non si può che auspicare con forza un'estensione del periodo di transizione conformemente al Withdrawal Agreement, che darebbe alle parti la possibilità di meglio il progetto di accordo sul futuro partenariato economico Unione Europea/Uk pubblicato lo scorso marzo dalla Commissione. In questo modo, verrebbe evitato alle imprese tanto britanniche quanto europee lo shock economico a cui andrebbero sicuramente incontro se, non essendosi ancora riprese dall'emergenza coronavirus, si trovassero costrette a fare i conti con i mutamenti epocali che la Brexit porterà inevitabilmente con sé» aggiunge. «Brexit determinerà un mutamento nell'attuale architettura finanziaria dell'Europa le cui ricadute potranno valutarsi compiutamente solo tra diversi anni. Penso alla necessità per molti soggetti di ripensare integralmente il proprio modello organizzativo e distributivo, in considerazione delle limitazioni conseguenti al venir meno dei c.d. «passaporti» per lo svolgimento dei servizi regolamentati all'interno dei paesi Ue», sottolinea Alessandro Zappasodi, partner di Pedersoli Studio Legale. «Le opportunità per l'Italia appaiono per lo più connesse con la capacità dei propri distretti finanziari di rendersi attrattivi per quei gruppi che abbiano esigenze di rilocalizzazione delle proprie operations verso clientela italiana o europea. Ad esempio, se Francoforte ha certamente accolto prevalentemente trasferimenti nel mondo bancario dell'investment banking, Dublino e Lussemburgo sono state interessate per lo più da ricollocazioni nel mondo dell'asset management, Amsterdam ha visto trasferirsi principalmente broker e trader, mentre Parigi è risultata attrattiva per diverse tipologie di operatori» conclude.

     

    Prudente Marco Gubitosi, London managing partner di Legance, secondo il quale «è molto difficile che si possa raggiungere un accordo completo e strutturato entro questo brevissimo lasso di tempo. Le parti coinvolte punterebbero a raggiungere un più limitato accordo transitorio basato su un temporaneo mutuo riconoscimento sui più rilevanti settori economici, industriali e finanziari al fine di continuare le negoziazioni in un secondo momento per gli auspicati accordi strutturati ed esaurienti. Tra le tante criticità si possono ricomprendere quelle legate ai servizi finanziari, al settore commerciale delle relative tenuta delle supply chain per il settore industriale, oltre che a settori rilevanti come la pesca e le produzioni agro alimentari».

     

    Secondo Raffaele Cavani, partner fondatore di Munari Cavani Studio Legale, «l'ipotesi di una Hard Brexit sembra più una suggestione elettorale (peraltro molto più sfumata sotto il governo Johnson) che non una ipotesi ragionevole, in quanto implicherebbe una serie di complicazioni sia teoriche sia pratiche. Più plausibile una soluzione negoziata, che verosimilmente si incentrerà appunto sui temi più sensibili per i «falchi» di Londra: regolamentazione della immigrazione; termini di adesione al mercato unico; e, soprattutto, la regolamentazione di eventuali barriere commerciali e fiscali tra Regno Unito ed Unione Europea. In quest'ottica, particolarmente interessante sembra l'ipotesi più radicale, cioè la possibilità di qualifi care la Gran Bretagna alla stregua di un Paese extracomunitario tout court, con vincolo di siglare «singoli trattati» per ciascuna materia «con ciascuno» Stato della Ue. La scacchiera verrebbe quindi, per così dire, frazionata; e di un eventuale negoziato in tal senso potrebbero beneficiare le imprese italiane particolarmente attive nell'export, soprattutto nei tradizionali settori di eccellenza del lusso, e per converso nel settore dell'indotto turistico». «Paradossalmente, in Uk l'emergenza sanitaria in corso e le sue conseguenze potrebbero anche facilitare - sul piano politico - l'uscita senza un accordo. Sono cambiate le priorità e questo potrebbe rendere più facili scelte altrimenti molto rischiose sul piano dei consensi o delle ricadute economiche», spiega Anthony Perotto di Nctm. Che aggiunge come «Fare business in Uk continuerà ad essere una priorità ed un'opportunità, specie per quei Paesi e realtà imprenditoriali che - vale per l'Italia - puntano sull'eccellenza di prodotti e servizi. Certamente vi potranno essere maggiori ostacoli regolamentari, giuridici, doganali. Il verosimile aumento dei costi di transazione e la riduzione della libertà di movimento di persone e merci finirà per incidere sulla tipologia degli investimenti cross-border Italia/ UK, ma non li ridurrà. Gli stessi fattori continueranno a concorrere, anche in caso di hard Brexit, ad opportunità di crescita per i distretti più avanzati e competitivi del nostro Paese». Infine per Nicla Picchi, fondatrice e managing partner dello Studio Legale Picchi, Angelini & Associati, «il nuovo round di negoziati non ha visto passi avanti; ciò aumenta le probabilità che si arrivi alla scadenza del periodo transitorio senza accordo, con automatica applicazione al Regno Unito delle regole del Wto. Il primo effetto sarà che, determinandosi una frontiera tra la Gran Bretagna e l'Unione Europea, le merci in entrata e in uscita subiranno controlli e l'applicazione di misure daziarie, e ciò determinerà un forte rallentamento nella circolazione delle merci; inoltre si modificheranno le modalità di adempimento degli obblighi doganali, Iva e Intrastat. Effetti importanti si avranno anche sulla circolazione dei servizi, delle persone e dei capitali, che andranno incontro a limitazioni. Gli effetti a medio termine sono difficili da prevedere: per il momento è nota l'intenzione di realizzare numerosi porti franchi per attirare nell'isola investimenti e capitali».

     

     

     

    Tratto da ItaliaOggi Sette