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    12.10.2023

    Gioia Tauro a rischio per l'ETS: bisogna fare presto!


    Non è piacevole salire in cattedra e pronunciare le fatidiche parole “ve lo avevamo detto”, eppure, è proprio il caso di dirlo: da tempo, e da svariate parti, si è evidenziato come il sistema ETS applicato al trasporto marittimo rischiasse non solo di far lievitare i costi dello stesso e di non raggiungere l’obiettivo di minori emissioni di anidride carbonica atmosfera, ma anche che questo regime applicato al transhipment di contenitori andrà a regalare un incredibile vantaggio competitivo a porti posti al di fuori dell’Europa e, paradossalmente, a far aumentare le emissioni dannose. Nonostante questo, siamo di fatto alla vigilia dell’entrata in vigore della normativa e solo adesso si prende piena consapevolezza del rischio che stiamo correndo.

    Ma andiamo con ordine e facciamo un piccolo passo indietro. L’estensione del regime al trasporto marittimo origina nel 2021, con una proposta della Commissione in tal senso, contenuta all’interno del pacchetto Fit for 55. All’esito del negoziato europeo, nel solito trilogo dove si fa fatica a toccar palla, e grazie al lavoro emendativo di alcuni Europarlamentari del nostro Paese che comprendono i rischi contenuti nella misura, nella Direttiva finale del Parlamento e del Consiglio dello scorso maggio vengono inserite alcune misure di esenzione per tutelare alcuni segmenti ritenuti a rischio, come i collegamenti con le isole minori. Peraltro la stessa Direttiva fortunatamente riconosce – ma si sono sudate le sette camicie per arrivare a questo risultato – il pericolo di elusione e “trasferimento delle attività di trasbordo verso porti al di fuori dell'Unione in assenza di una misura mondiale basata sul mercato” o di “misure di mitigazione”. Rischi che comprometterebbero anche il raggiungimento degli obiettivi e, quindi, l’efficacia stessa della Direttiva a causa delle distanze supplementari percorse dalle navi a scopi elusivi.

    Tuttavia, il correttivo pensato per non incappare in questa problematica non è sufficiente. Per scongiurare il rischio di elusione, infatti, la Direttiva delega alla Commissione di mettere a terra la cd. “regola delle 300 miglia”. In sintesi, la regola esclude dalla definizione di “porto di scalo”, rilevante per la determinazione della tratta ai fini del calcolo ETS, i porti situati nell’arco delle 300 miglia nautiche dai confini della Unione in cui la quota di trasbordo di container superi il 65% del traffico totale di container. In questi porti la toccata non verrebbe conteggiata. Pertanto, il regime ETS (che si applica alle emissioni realizzate nella tratta immediatamente precedente e successiva al porto europeo) vedrebbe conteggiato non il 50% delle emissioni registrate dallo scalo nei porti situati nelle 300 miglia e fino al successivo scalo UE, ma nell’intera tratta percorsa dal porto extra-UE immediatamente precedente (per esempio un porto cinese) fino al primo porto europeo.

    In questo modo si è pensato di pareggiare il level playing field competitivo tra servizi portuali resi nei porti del nord Africa rispetto a quelli dei principali porti di transhipment dell’Europa mediterranea.

    Questo strumento, tuttavia, non è adeguato per assolvere il compito che la stessa Direttiva gli affida e cioè scongiurare la delocalizzazione delle attività di transhipment oggi effettuate nei porti dell’Europa mediterranea presso gli scali esistenti ed in via di realizzazione nei paesi del nord Africa.

    Non è adeguato per una ragione economica e si sa che, quando i conti non tornano, rimane poco spazio per le chiacchere.

    Una compagnia marittima che ha eletto un porto UE per le proprie attività di transhipment (sia essa CMA-CGM a Malta, MSC a Gioia Tauro o Cosco al Pireo per semplificare) ed effettuato cospicui investimenti per rendere tali impianti efficienti, dovrà mettere in conto che affronterà costi operativi ben maggiori (dovuti al regime ETS) rispetto ai propri competitors che avessero prescelto di operare (ed investire) nei porti del nord Africa (Tanger Med e Port Said in testa).

    Facciamo l’esempio di una nave che parte da Singapore (porto non UE), scala Gioia Tauro (porto UE) e poi va ad Anversa (altro porto UE). La compagnia si troverà a pagare il 50% delle emissioni generate fra i primi due porti e il 100% di quelle fra i secondi due. Ma se lo scalo intermedio fosse a Port Said o a Tanger Med, ecco che anche sulla seconda tratta pagherebbe il 50%.

    La differenza per una nave di medie dimensioni di circa 8000 TEUs di portata è di circa 100 mila euro a viaggio (su un totale di 450 mila euro a viaggio). Le navi impegnate su questi trade sono migliaia, circostanza che porta il gap competitivo a decine di milioni di euro all’anno.  Ma non è questo il vero problema. Circa il 50% del traffico intercontinentale negli hub è rappresentato da linee che collegano la regione Asiatica con le Americhe.  La nave che parte da Singapore, scala Port Said e poi si dirige a New York non pagherà nulla, visto che verrebbero toccati tre porti non UE.  Se lo scalo intermedio fosse Gioia Tauro, invece, ecco che dovrebbe pagare il 50% su entrambe le tratte per un costo che si aggira sui 500 mila euro a toccata. Questa è la vera differenza insostenibile. Il regime ETS è pensato per applicarsi al mercato in maniera indifferenziata e così farà laddove il relativo costo sarà assorbito dal cliente come peraltro avviene per l’energia elettrica prodotta da fonti fossili o per il trasporto aereo. Se invece il regime consentisse che due operatori (coloro che sono onerati dell’acquisto del certificato) vengano incisi in modo difforme, pare evidente che tale regime andrebbe modificato.

    Ecco spiegato – spero con la dovuta chiarezza – che lo strumento pensato per garantire il level playing field non funziona perché ipotizzare di non contare (semplicemente) Tangeri come porto di scalo per rotte marittime con destini o provenienze europee riduce il gap dei costi per queste rotte, ma non incide affatto e quindi non risolve il tema relativamente alle rotte che passano in quei porti in transito da paesi extra Ue. Si parla di centinaia di milioni di euro/anno di extra costi che, se non aboliti con idonee modifiche alla Direttiva, comporteranno la de-localizzazione delle linee di transhipment attualmente nei porti hub del mediterraneo (Gioia Tauro in testa ma anche Malta, Algeciras e Sines) presso porti nord africani (i soliti noti, ma anche nelle neo costruite strutture degli algerini che saranno sicuramente a fregarsi le mani per questo ennesimo autogol della Unione).

    Risultano evidenti i rischi per l’Italia (e non solo): perdita di posti di lavoro, ma anche mancanza di controllo da parte del nostro Paese degli snodi fondamentali della logistica.

    Occorre quindi velocizzare il riesame da parte della Commissione circa il funzionamento della Direttiva, per individuare e prevenire già in una fase iniziale i comportamenti elusivi, con l’obiettivo di giungere ad una revisione tempestiva della stessa prima che i processi di trasferimento delle linee marittime diventino potenzialmente irreversibili. Ed è necessario, al contempo, arrivare ad escludere dalla definizione di “porto di scalo” anche i porti UE maggiormente a rischio (per quanto riguarda i traffici extra UE/UE) e sospendere il regime ETS per i traffici in transito per le rotte extra UE/extra UE.

     Il tempo a disposizione è poco e occorre agire in fretta. Poter affermare “ve lo avevamo detto” di fronte al declino di un porto, alla perdita di posti di lavoro e di controllo della catena logistica non sarebbe affatto di consolazione.