Con l’attesissima sentenza numero 25767 del 2015, la Suprema Corte di Cassazione riunita in sezioni unite affronta e risolve due rilevanti contrasti giurisprudenziali sorti con riguardo alle azioni risarcitorie in materia di responsabilità medica, chiarendo i principi dell’onere della prova in capo al professionista, nonché l’impossibilità di riconoscere autonoma azione risarcitoria al neonato in virtù di un asserito diritto a non nascere se non sani.
Con la sentenza numero 25676 del 2015, la quale rimarrà sicuramente un precedente storico nell’ambito della giurisprudenza in materia di responsabilità medica, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione affrontano e risolvono - speriamo definitivamente - due rilevanti contrasti che si erano evidenziati nella più recente giurisprudenza con riguardo a due distinti profili, l’uno inerente l’onere della prova e l’altro inerente la stessa esistenza del danno in capo al nato malformato nei casi di wrongful life.
Con riferimento al primo profilo, a parere della Suprema Corte, al fine di riconoscere una responsabilità del medico per la errata o omessa diagnosi ed informazione che sia in grado di incidere causalmente sul diritto di autodeterminazione della donna è necessario che questa fornisca la prova di un fatto complesso; segnatamente deve essere provata: (i) la rilevante anomalia del nascituro, (ii) il grave pericolo per la salute psicofisica della donna, (iii) la mancata scelta abortiva di quest’ultima come conseguenza dell’omessa informazione da parte del medico. Con riguardo a tale ultimo requisito, poiché la prova verte su un fatto psichico, ossia su uno stato psicologico, un’intenzione, un atteggiamento volitivo, osserva la Suprema Corte che di tale circostanza non si può fornire rappresentazione immediata e diretta. In tal caso quindi, si può ragionevolmente risalire all’esistenza del fatto psichico per via induttiva. Ebbene, le Sezioni Unite chiariscono che se da un lato il legislatore non esime in alcun modo la madre dall’onere della prova della malattia grave, fisica o psichica, che giustifichi il ricorso all’interruzione della gravidanza - prova che può essere fornita ai sensi dell’articolo 2729 c.c. anche attraverso l’inferenza del fatto ignoto da un fatto noto, sulla base di correlazioni statisticamente ricorrenti e anche di circostanze contingenti -, sul professionista resta l’onere della prova contraria ossia che la donna non si sarebbe determinata comunque all’aborto, per qualsiasi ragione a lei personale. L’accertamento dell’effettivo evento di danno conseguito al mancato esercizio del diritto di scelta, come conseguenza della negligenza del medico curante, deve essere oggetto di prova occorrendo che la situazione di grave pericolo per la salute fisica o psichica si sia poi tradotto in danno effettivo, verificabile anche mediante consulenza tecnica d’ufficio.
Con riferimento al secondo profilo, centrale, innovativo e rilevantissimo nella sentenza in commento, che come tale darà luogo con grande probabilità ad un dibattito dottrinario, le Sezioni Unite sono state chiamate a dirimere un contrasto giurisprudenziale in merito alla legittimazione del neonato (malformato e/o handicappato) a pretendere il risarcimento del danno iure proprio, consistente nel c.d danno da vita handicappata, nei confronti del medesimo medico che aveva omesso o errato la diagnosi (precludendo, in tal modo, una corretta informazione alla madre). La sentenza in commento appare estremamente interessante, in quanto affronta tale delicato profilo giuridico da un punto di vista del tutto nuovo rispetto al passato. La Suprema Corte, infatti, dopo avere analiticamente dato conto dell’ampio dibattitto svoltosi con riferimento alla possibile legittimazione attiva del nato, giunge alla conclusione che, in linea puramente teorica e dogmatica, si dovrebbe riconoscere al minore l’azione volta al risarcimento di un danno, che egli assume ingiusto, cagionatogli durante la gestazione.
Se, dunque, sotto il profilo soggettivo il riconoscimento della titolarità di un diritto oltre che della legittimazione attiva del figlio handicappato appare risolta, cionondimeno tale approccio appare in aperta ed insuperabile contraddizione con il concetto di danno-conseguenza previsto all’articolo 1223 c.c., in forza del quale il danno, in estrema sintesi, consisterebbe nell’avere di meno a seguito dell’illecito.
In tale ottica, pertanto, è necessario procedere alla comparazione tra due situazioni alternative prima e dopo l’illecito. Ebbene, nell’eseguire tale comparazione, nel caso di specie, le Sezioni Unite individuano una insuperabile contraddizione in quanto il secondo termine di paragone, nella comparazione sopra richiamata, è la non vita, da interruzione della gravidanza. E la non vita non può essere un bene della vita e, tanto meno, può esserlo per il nato, retrospettivamente, l’omessa distruzione della propria vita (in fieri), che è il bene per l’eccellenza, al vertice della scala assiologica dell’ordinamento.
Ne discende pertanto che non sarebbe riscontrabile un danno ingiusto, secondo il concetto dell’articolo 2043 c.c. in quanto non si potrebbe parlare di un diritto a non nascere. L’ordinamento, infatti, non riconosce il diritto alla non vita. Né si può ritenere tale contraddizione superata dal tentativo di estendere al nascituro la facoltà riconosciuta alla madre e nascente dal diritto di autodeterminazione, diritto che si rammenta è concesso dalla legge alla gestante soltanto. Tantomeno, secondo le Sezioni Unite, può essere riconosciuto al neonato il diritto di non nascere se malato, tenuto conto che ove così fosse dovrebbe essere riconosciuto simmetricamente un obbligo della madre di abortire; obbligo al contrario sconosciuto al legislatore. Inoltre, ove si accedesse al principio secondo il quale il nascituro sarebbe titolare di un diritto a non nascere se malato, diritto che sarebbe leso dall’eventuale errore di diagnosi e/o informativo del professionista, si finirebbe per equiparare l’errore medico che non abbia evitato la nascita indesiderata, a causa di gravi malformazioni del feto, all’errore del medico che l’abbia direttamente cagionata; è evidente che tale conclusione – da un punto di vista giuridico e di sistema - non è assolutamente condivisibile.
In ragione di quanto precede, pertanto, la Suprema Corte conclude che l’argomentazione volta superare la tesi della risarcibilità del danno subito da un soggetto non ancora nato al momento della condotta colposa del medico, non è tuttavia capace di superare l’impossibilità di stabilire un nesso causale tra l’asserita condotta colposa del medico e le sofferenze psicofisiche cui il figlio è destinato nel corso della sua vita.
Come detto, la sentenza in commento alimenterà un folto dibattito dottrinario, ma, a parere di chi scrive, la decisione è caratterizzata da un particolare equilibrio e una prudenza, da certi punti di vista, anche in controtendenza con la giurisprudenza di legittimità più recente. La sentenza in commento, chiarisce che la propria decisione interviene in un ambito fortemente caratterizzato da elementi emotivi e metagiuridici, condizionato da riflessioni filosofiche ed etico religiose. Le Sezioni Unite, in proposito, precisano chiaramente di aver escluso un approccio di carattere giuspolitico, limitandosi alla stretta interpretazione della disciplina vigente. In questa prospettiva, particolarmente apprezzabile appare l’osservazione critica mossa nei confronti della tesi favorevole all’ammissibilità del diritto del minore al risarcimento del danno iure proprio, laddove pone in rilievo come “la riconoscibilità di una pretesa risarcitoria del nato disabile verso il medico, pur se palesi un’indubbia tensione verso la giustizia sostanziale, finisce con l’assegnare, in ultima analisi, al risarcimento del danno un’impropria funzione vicariale, suppletiva di misure di previdenza e assistenza sociale”.