Per la Corte di Giustizia dell’Unione europea i sistemi di distribuzione selettiva di prodotti di lusso possono includere un divieto delle vendite online su piattaforme marketplace
Il 6 dicembre 2017 la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha stabilito l’innovativo principio per cui i produttori/fornitori di beni di lusso possono lecitamente vietare ai distributori autorizzati nell’ambito di un sistema di distribuzione selettiva le vendite dei prodotti online su piattaforme di marketplace.
È una sentenza ragionevolmente destinata a produrre effetti rilevanti sulle modalità di organizzazione delle reti distributive di prodotti di lusso. Già basterebbe per comprenderne l’importanza, considerato che – come certificato anche dall’Indagine di settore della Commissione europea sull’e-commerce[1] – il sempre più cospicuo ricorso dei rivenditori al dettaglio alle vendite su piattaforme di marketplace è un fenomeno di sicuro impatto anche nel comparto dei beni di lusso.
Più difficile valutare se siamo davanti a una pronuncia capace di produrre effetti sul complessivo regime antitrust europeo delle intese verticali: una breccia, in un assetto che in passato si era mostrato assai poco sensibile a far arretrare tradizionali baluardi di difesa della concorrenza nel nome di esigenze di protezione dell’immagine di marca, si è aperta. Su quanto sia grande già si intravedono posizioni molto diverse.
La pronuncia della Corte di Giustizia trae origine da una controversia tra Coty Germany GmbH (“Coty”), fornitore di prodotti cosmetici di lusso[2], e un suo distributore autorizzato tedesco (Parfümerie Akzente GmbH). La controversia aveva ad oggetto la clausola del contratto di distribuzione selettiva che – al dichiarato fine di preservare l’aura di prestigio dei prodotti di Coty – ne vietava al distributore la vendita online tramite cc.dd. piattaforme di marketplace in modo generalizzato, quindi a prescindere da ogni verifica sul fatto che tali piattaforme rispettassero i requisiti qualitativi richiesti dal fornitore.
Azionando la clausola, Coty si è rivolta al giudice, affinché quest’ultimo vietasse al distributore di commercializzare i prodotti sulla piattaforma di marketplace Amazon.de. Il giudice di prime cure ha respinto la domanda di Coty sul presupposto che la limitazione alle vendite su piattaforme di marketplace costituisse una restrizione concorrenziale vietata dall’art. 101 TFUE.
Coty ha appellato la sentenza dinanzi all’Oberlandesgericht di Francoforte, che ha deciso di rivolgersi alla Corte di Giustizia per chiarire essenzialmente se: (i) la protezione dell’immagine di brand di lusso costituisca un motivo legittimo per delineare un sistema di distribuzione selettiva; (ii) il divieto generalizzato di vendite online su piattaforme di marketplace sia illecito ex art. 101 TFUE e costituisca una restrizione fondamentale della concorrenza[3].
Già con le conclusioni presentate il 26 luglio 2017 l’Avvocato Generale Wahl (“AG”) si era pronunciato in senso favorevole alle domande di Coty, rilevando che una rete di distribuzione selettiva finalizzata alla distribuzione di prodotti di lusso e diretta a preservarne l’immagine di prestigio può essere compatibile col divieto di intese anticoncorrenziali, qualora ricorrano le tre condizioni fissate dalla Corte di Giustizia nella celebre sentenza Metro[4], ossia: (a) i prodotti trattati, per il loro elevato livello qualitativo o tecnologico, richiedono un sistema di distribuzione selettiva, che ne tuteli la qualità e l’uso corretto; (ii) la scelta dei distributori deve avvenire secondo criteri oggettivi di carattere qualitativo, stabiliti indistintamente per tutti i rivenditori potenziali e applicati in modo non discriminatorio; (iii) i criteri definiti non devono andare oltre i limiti del necessario.
L’elemento centrale della posizione espressa dall’AG consisteva nella constatazione che non solo i prezzi, ma anche altri fattori, tra cui l’immagine di esclusività che i prodotti sono capaci di veicolare, costituiscono leve attraverso cui può essere stimolata la concorrenza e la scelta dei consumatori.
Sulla base di questo presupposto, l’AG aveva concluso che il divieto di vendite online su piattaforme di marketplace potesse essere ritenuta legittima e proporzionata nel caso di specie poiché i produttori sono legittimamente interessati a mantenere il controllo nella distribuzione dei loro beni e tale restrizione può incrementare la concorrenza qualitativa, dal momento che protegge l’immagine di prestigio dei prodotti e soprattutto evita il verificarsi di fenomeni di free-riding da parte di rivenditori non autorizzati, tali da vanificare gli investimenti compiuti dalle imprese fornitrici al fine di preservarne l’aura di lusso.
Allineandosi alle conclusioni dell’AG, nella sentenza la Corte ha sancito che:
Al contempo, la Corte ha sottolineato come un divieto assoluto in capo ai rivenditori, comprensivo anche di un divieto di vendita tramite un loro sito internet “proprietario”, non sia in linea di principio ammissibile, a meno che non sia sorretto da giustificazioni oggettive.
La sentenza della Corte chiarisce definitivamente la compatibilità con le norme antitrust del divieto imposto dai produttori di beni di lusso ai propri distributori di vendere i prodotti su piattaforme di marketplace.
Al contempo, la sentenza non pare idonea a dipanare tutti i dubbi in materia: infatti, essendo le sue statuizioni espressamente limitate alla distribuzione di beni di lusso, è presumibile che in futuro possano sorgere dispute con riguardo alla natura del bene oggetto di distribuzione selettiva – se si tratti, in altre parole di un vero prodotto “di lusso”, ossia in che cosa il lusso consista, quali siano i suoi confini e così via.
Questo potrà essere in particolare l’effetto di una lettura restrittiva della sentenza, secondo la quale solo se e nella misura in cui dovesse essere accertato il carattere lussuoso di un prodotto potrà essere lecitamente invocata la conformità antitrust di un divieto generalizzato alle vendite online su piattaforme di marketplace.
Su questa linea sembra essersi già posizionato il Bundeskartellamt tedesco, ossia l’autorità di concorrenza nazionale finora maggiormente attiva nella repressione delle clausole limitative del commercio online, che ha così dichiarato: “the Bundeskartellamt’s decisional practice relates to brand manufacturers outside the luxury industries. Our preliminary view is that such manufacturers have not received carte blanche to impose blanket bans on selling via platforms … At first glance, we see only limited effects on our decisional practice”.
Non sembra però che si possa scartare una lettura più ampia, disponibile a riconoscere spazi di estensione al di fuori della fattispecie “lusso” (che pure rimane senza dubbio l’oggetto specifico della pronuncia).
Ad esempio, l’onnipresente raffronto tra sforzi e investimenti delle imprese e la loro frustrazione da parte di istanze di protezione della concorrenza e della libertà di scelta dei consumatori prende qui una piega più incline del solito a valorizzare i primi a scapito delle seconde. Tanto più se si considera che in gioco ci sono sforzi e investimenti nella creazione di un valore definito, citando testualmente la sentenza, come la “immagine di lusso dei prodotti”. Se è lecito impedire ai consumatori di fruire dei vantaggi delle piattaforme di marketplace per salvaguardare l’immagine di lusso dei prodotti, perché non dovrebbe esserlo, ci si potrebbe chiedere, usare lo stesso divieto per prodotti ad alto tasso tecnologico. O in termini più generali: in tutti i casi in cui sono in gioco rilevanti investimenti e sforzi che possono risultare compromessi da particolari pratiche commerciali al dettaglio.
Torna alla ribalta il vecchio argomento (invocato espressamente dall’AG Wahl, e poi non ripreso dalla sentenza) dell’opportunistico sfruttamento da parte dei free rider (le piattaforme online come declinazione contemporanea dei discounter dei tempi di Metro) degli sforzi dei rivenditori servizievoli, disposti a spendere per rispettare le necessità del prodotto, ma poi esposti all’attrattiva esercitata – su consumatori che già hanno potuto ricevere informazioni, fare confronti tra alternative ecc. – da rivenditori generalisti ma con prezzi più bassi. A lungo andare, si completava l’argomento, i rivenditori servizievoli scompaiono e i consumatori soffrono.
È questo il sottostante logico-economico della sentenza Coty? Per il momento, non si può eludere l’interrogativo. Di certo si prospettano applicazioni suscettibili, in ordinamenti diversi, di prendere direzioni diverse e anche molto distanti tra loro.
I primi orientamenti che saranno espressi dalle autorità nazionali saranno quindi di fondamentale importanza per saggiare sul campo la reale portata e tenuta dei principi Coty.
Il contenuto di questo articolo ha valore solo informativo e non costituisce un parere professionale.
Per ulteriori informazioni contattare Luca Toffoletti e Alessandro De Stefano.
[1] Cfr. Relazione finale della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo sull’indagine settoriale sul commercio elettronico (SWD(2017) 154 final).
[2] Tra gli altri, Marc Jacobs, Calvin Klein, Chloé, Hugo Boss.
[3] In particolare, le questioni pregiudiziali sono state le seguenti: “1) Se i sistemi di distribuzione selettiva, diretti alla distribuzione di prodotti di lusso e di prestigio e finalizzati primariamente a garantire un’‘immagine di lusso dei suddetti prodotti possano costituire un elemento di concorrenza compatibile con l’articolo 101, paragrafo 1, TFUE. 2) In caso di risposta affermativa alla prima questione: [s]e costituisca un elemento di concorrenza compatibile con l’articolo 101, paragrafo 1, TFUE il divieto generale imposto ai membri di un sistema di distribuzione selettiva operanti nel commercio al dettaglio di servirsi, in maniera riconoscibile, per le vendite a mezzo Internet, di imprese terze senza che rilevi, nel caso specifico, il mancato soddisfacimento dei legittimi requisiti di qualità posti dal produttore. 3) Se l’articolo 4, lettera b), del regolamento n. 330/2010 debba essere interpretato nel senso che un divieto imposto ai membri di un sistema di distribuzione selettiva operanti nel commercio al dettaglio di servirsi, in maniera riconoscibile, per le vendite a mezzo Internet, di imprese terze costituisca una restrizione per oggetto della clientela del distributore al dettaglio. 4) Se l’articolo 4, lettera c), del regolamento n. 330/2010 debba essere interpretato nel senso che un divieto imposto ai membri di un sistema di distribuzione selettiva operanti nel commercio al dettaglio di servirsi, in maniera riconoscibile, per le vendite a mezzo Internet, di imprese terze costituisca una restrizione per oggetto delle vendite passive agli utenti finali”.
[4] Sentenza della Corte di Giustizia del 25 ottobre 1977, Metro SB-Großmärkte/Commissione, causa C-26/76.
[5] Si tratta degli stessi principi di liceità di un sistema di distribuzione selettiva declinati dalla Corte di Giustizia nella sentenza Pierre Fabre Dermo-Cosmétique del 13 ottobre 2011, causa C-439/09.