La mancanza di donne sia in posizioni di vertice che, orizzontalmente, in occupazioni diverse da quelle maschili spiegano solo parzialmente le origini del pay gap tra uomini e donne. Le differenze retributive legate al genere sono uno dei principali campi di indagine di Camilla Gaiaschi, ricercatrice in forza al Gender & Equality in Research and Science del Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell'Università statale di Milano. "Normalmente le occupazioni a predominanza maschile - spiega Gaiaschi - sono più remunerative sia nel mercato del lavoro che all'interno delle stesse aziende (ad esempio la comunicazione è pagata meno rispetto al core business). Ogni organizzazione ha le sue specificità ma questi meccanismi si ripetono sempre".
Come rilevano i principali osservatori (es. Eurostat) a parità di mansioni e merito le differenze di salario possono essere molto rilevanti. In che modo la letteratura scientifica giustifica il fenomeno? "Nel pay gap c'è una parte spiegata, razionale, che non vuol dire giustificabile, riconducibile al fatto che le donne, come accennato, occupano spesso posizioni più basse (segregazione nel mercato del lavoro ma anche nelle stesse imprese) oppure alla maternità: in quei mesi ad esempio non si matura anzianità. Poi c'è un'altra parte che non si può spiegare e che rappresenta è il luogo della discriminazione vera e propria. In un paese come l'Italia che ha una legge sull'equità della retribuzione, il pay gap si gioca nei bonus, nella negoziazione individuale, nella diversa valorizzazione delle mansioni. Tutte cose molto 'sottili' e difficili da misurare anche perché le aziende sono molto riservate sui premi di produttività". E in Italia come va? Sorprendentemente - secondo i dati di Eurostat - lo scostamento di retribuzione tra uomini e donne nel settore privato (5%) è tra i più bassi tra quelli dei 28 Stati membri dell'Ue. Camilla Gaiaschi scuote la testa e accenna a bias più meno evidenti. "Sì, è vero l'Italia performa bene ma solo nel mercato generale. Da noi il pay gap è relativamente basso perché le donne o non entrano nel mercato del lavoro oppure sono molto qualificate ed entrano con alte credenziali, riducendo il pay gap generale. In altri paesi farebbero il part time ma da noi le casalinghe. Al di là di ciò, se si analizzano i dati relativi alle professioni ad elevata qualificazione o che richiedono skills molto tecnici il pay gap è piuttosto marcato". Comunque sia, come conferma ancora l'esperta, sono infiniti gli studi centrati sulla parte di pay gap non spiegata. "Le differenze di retribuzione, le probabilità di essere assunte o promosse si vedono chiaramente quando a parità di cv e competenze l'unico elemento realmente diverso è il genere. Tale discriminazione è dovuta a molteplici inconscious bias: maschi e femmine vengono a priori valutati come se avessero esperienze e qualità diverse".
Inestirpabili retaggi (per ora) affermano che la donna è culturalmente e sociologicamente diversa e che quindi può risentire dell'ambiente 'ostile'. Conclude Camilla Gaiaschi: "Certo c'è anche il fenomeno del drop out delle donne che a 50 anni non ce la fanno più a lavorare. Se sei attorniata da uomini, alla lunga puoi fare fatica, essere isolata o restare vittima di sexual harrassment. Nella pausa caffè non ti inserisci perché non puoi parlare della partita e non fai network con i colleghi fuori dell'ufficio perché non giochi a calcetto, cioè lì dove magari si decidono le carriere... Quindi sicuramente ci può essere stanchezza. Ma non perché le donne non siano fatte per il potere, quanto perché il potere è fatto in quella maniera lì...". (S.D.M)
In Italia (oltre che dall'articolo 3 della Costituzione) la discriminazione di genere sul lavoro è vietata dal decreto 198/2006 sulle pari opportunità tra uomini e donne. In particolare è vietata la discriminazione nell'accesso al lavoro, formazione, promozioni professionali e condizioni di lavoro (articolo 27); la discriminazione retributiva (articolo 28); la discriminazione nella prestazione lavorativa (articolo 29). La non ottemperanza da parte delle aziende può dunque comportare un risarcimento del danno a favore di lavoratrici o lavoratori che facciano parte del sesso sottorappresentato. Spiega l'avvocato Francesca Pittau, dello Studio legale Nctm che al tema della discriminazione di genere ha dedicato un recente workshop milanese organizzato insieme a Gidp - Associazione direttori risorse umane: "La quantificazione del danno è correlata al pregiudizio economico, morale che il lavoratore abbia subìto e quindi dipende dal singolo caso. Nel caso di discriminazione retributiva ci si limita a un'equiparazione o a un risarcimento pecuniario". Particolare rilevanza assumono le azioni positive, previste sempre dal decreto 198/2006 (articolo 42) che i datori di lavoro dovrebbero implementare. Queste consistono "in misure volte alla rimozione degli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità (...) dirette a favorire l'occupazione femminile e realizzate l'uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro. Le azioni positive (...) hanno in particolare lo scopo di eliminare le disparità nella formazione scolastica e professionale, nell'accesso al lavoro, nella progressione di carriera, nella vita lavorativa e nei periodi di mobilità (...)".
Anche le molestie sono considerate una forma di discriminazione e in qualche caso possono assumere rilevanza penale. L'articolo 26 del decreto definisce molestie "quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo". Idem le molestie sessuali "ovvero quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l'effetto etc., etc.". Come spiega l'avvocato Pittau, se è vero che in caso di molestie "le responsabilità sono diverse e vanno a intaccare gli individui, in realtà potrebbero anche investire indirettamente il datore di lavoro qualora rientrassero nell'ambito di una norma contenuta articolo 2087 del Codice civile. Tale articolo dice che il datore di lavoro è responsabile di tutto quanto riguarda la personalità morale, l'integrità fisica e psichica del lavoratore e che questo concetto rientra nel tema della salute e sicurezza del lavoratore. L'azienda deve quindi produrre misure e cautele che possano evitare quell'evento". Cosa devono fare le aziende per premunirsi? "Il suggerimento – prosegue l'avvocato Pittau - è cercare di essere molto chiari nell'identificare all'interno delle proprie policy, come sussidio alle funzioni dell'HR, quei comportamenti che sono o non sono accettabili, nello svolgimento dei rapporti tra colleghi e/o verso gli esterni. Nelle sentenze si vede che, soprattutto quando i comportamenti posti in essere sono correlati all'espressione linguistica (es. cose sgradevoli, le boutade machiste, in un contesto che le ha sempre tollerate) diventa poi molto complesso per un datore di lavoro affermare che si è superato il limite se prima quel limite non è stato tracciato in maniera chiara". Infine, considerato che in un rapporto di lavoro non c'è solo il licenziamento ma sanzioni di vario tipo, l'identificazione di policy scritte da parte del datore di lavoro "può anche definire gli elementi propri dell'eventuale inadempimento da parte del lavoratore - conclude l'avvocato - e aiutare a trovare una mediazione. Si possono descrivere policy interne molto stringenti ma senza dimenticare la proporzionalità degli interventi". (S.D.M.)
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Fonte: F. Pittau in "La discriminazione di genere", convegno Gidp Nctm, Milano 2019
Tratto da Aboutpharma