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    11.02.2025

    La Corte di Giustizia annullerà la Direttiva sul Salario Minimo Adeguato?


    Il 14 gennaio 2025, l’Avvocato Generale ha espresso un parere favorevole alla posizione di Danimarca e Svezia nella causa da esse promossa per l’annullamento della Direttiva sul Salario Minimo Adeguato UE 2022/2041.

    La questione principale sollevata dai due Stati (che avevano espresso voto contrario anche durante il processo di approvazione della Direttiva) è se questa superi la ripartizione delle competenze tra l’Unione Europea e i suoi Stati membri, come definita dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). La Danimarca, principale ricorrente, sostiene che la Direttiva eccede tali limiti.

    Secondo l’Avvocato Generale, la Direttiva effettivamente li supera, in quanto rappresenta un’"interferenza diretta" nella materia delle “retribuzioni”, che l’Articolo 153(5) del TFUE esclude espressamente dalla competenza dell’Unione Europea.

    In sostanza, secondo questa interpretazione, ciò che conta non è solo il fatto che la Direttiva non fissi direttamente le retribuzioni, ma il suo obiettivo di regolamentare i salari, indipendentemente dal grado di rigidità o flessibilità. Pertanto, anche un intervento di carattere procedurale volto a disciplinare la “retribuzione” costituirebbe un’interferenza diretta e violerebbe il TFUE, trattandosi di una materia di esclusiva competenza nazionale.

    Il ricorso è stato presentato da Danimarca e Svezia, mentre Germania, Francia e Spagna (tra gli altri) si sono schierate contro questa posizione.

    Danimarca e Svezia sono contrarie al salario minimo?

    Come sottolineato dall’Avvocato Generale, “la presente azione non nasce dal nulla, in quanto è intrinsecamente legata alla costante opposizione della Danimarca e di altri Stati membri nordici alle azioni dell'Unione Europea che ritengono interferiscano con i loro sistemi di diritto del lavoro e di relazioni industriali”.

    È evidente, infatti, che Danimarca e Svezia non si oppongono a garanzie minime per i lavoratori. Entrambi i Paesi hanno un tasso di copertura della contrattazione collettiva superiore all’80%, assicurando un’ampia tutela ai lavoratori. Tuttavia, la loro opposizione si basa sul modello consolidato di diritto del lavoro e relazioni industriali, che valorizza l’autonomia delle parti sociali. In questi Paesi, salari e condizioni di lavoro non sono stabiliti per legge, ma determinati attraverso la contrattazione collettiva.

    L’obiezione, dunque, non riguarda il contenuto e i principi della Direttiva – essendo entrambi i Paesi già vincolati alla Convenzione sulla fissazione del salario minimo dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) del 1970 – bensì il principio di non interferenza nella materia delle retribuzioni e nel diritto di associazione (altro aspetto oggetto di contestazione).

    Qual è lo stato del salario minimo nell’Unione Europea?

    Ad oggi, 22 dei 27 Stati membri dell’Unione Europea hanno un salario minimo nazionale stabilito per legge. I cinque Paesi che ne sono privi sono Danimarca, Italia, Austria, Finlandia e Svezia. Gli importi variano notevolmente all’interno dell’UE, passando dai 2.638 euro mensili in Lussemburgo ai 550,66 euro della Bulgaria.

    E in Italia?

    In Italia, il dibattito sull’introduzione di un salario minimo legale è stato al centro dell’attenzione nel 2024, soprattutto alla luce di fatti di cronaca e sentenze che hanno evidenziato il problema del lavoro povero e l’inadeguatezza di alcuni contratti collettivi rispetto al principio costituzionale di proporzionalità e sufficienza del salario. Principio che, secondo costante giurisprudenza, ha carattere immediatamente precettivo.

    Un ruolo di rilievo nel dibattito lo ha avuto il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro – CNEL (che in molti hanno ipotizzato, nel tempo, di abolire). Il CNEL ha condotto un’istruttoria al termine della quale ha emesso un parere, sostenendo che il fenomeno del lavoro povero debba essere valutato in termini più ampi rispetto alla sola introduzione di un salario minimo e valorizzando il ruolo della contrattazione collettiva.

    Nel parere si evidenzia che la Direttiva, come noto, non impone agli Stati membri l’obbligo di fissare per legge un salario minimo adeguato. Laddove esista già un sistema di contrattazione collettiva solido ed esteso, con trattamenti retributivi definiti da soggetti rappresentativi, non sono richieste ulteriori verifiche o adempimenti. 

    In Italia, il tasso di copertura della contrattazione collettiva si avvicina al 100%. Tuttavia, permangono alcune criticità, come il ritardo nei rinnovi contrattuali, sebbene il CNEL ritenga che il sistema disponga di strumenti correttivi per gestire i periodi di vacanza contrattuale. Per quanto riguarda la cosiddetta “contrattazione pirata”, il 96,5% dei lavoratori di cui si conosce il contratto applicato è coperto da un accordo firmato dalle principali sigle sindacali (CGIL, CISL e UIL).

    Il CNEL, comunque, conclude suggerendo l’adozione di un piano a sostegno della contrattazione collettiva, avendo a mente la questione salariale e l’esistenza di pratiche fraudolente ed elusive.

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    Secondo l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP), l’introduzione di un salario minimo di 9 euro lordi all’ora coinvolgerebbe circa il 21% dei lavoratori dipendenti, pari a 2,6 milioni di persone. Per le imprese, il costo stimato – escludendo i contributi previdenziali obbligatori e il trattamento di fine rapporto, calcolati sul salario mensile lordo – sarebbe di circa 6,7 miliardi di euro.