Il processo di razionalizzazione della spesa sanitaria, in atto nel nostro Paese da alcuni anni, ha riguardato di recente anche il mercato dei dispositivi medici.
Sul piano normativo, la spending review sull’acquisto di dispositivi medici ha trovato attuazione con la Legge n. 125 del 6 agosto 2015, di conversione del Decreto Legge n. 78 del 19 giugno 2015 recante “Disposizioni urgenti in materia di enti territoriali”.
Si tratta invero di un provvedimento più ampio con il quale il Governo, prima, e il Parlamento, poi, hanno dato seguito alla decisione della Conferenza Stato Regioni del 2 luglio scorso di tagliare il finanziamento statale ordinario del Servizio Sanitario Nazionale attraverso – anche ma non solo – una stretta sull’acquisto di dispositivi medici.
Le misure previste dalla Legge n. 125/2015 che riguardano direttamente i dispositivi medici sono due e sono entrambe contenute nell’art. 9 ter: la rinegoziazione dei contratti di fornitura dei dispositivi medici e l’estensione a questi ultimi del meccanismo del c.d. payback.
La rinegoziazione dei contratti. Con riferimento alla prima, il comma 1, lett. b) prevede, a carico degli enti del Servizio Sanitario Nazionale, l’obbligo di proporre ai fornitori di dispositivi medici una rinegoziazione dei contratti in essere che abbia l’effetto – lasciando ferma la durata dei contratti – di ridurre i prezzi unitari di fornitura e/o i volumi di acquisto e contenere, in questo modo, la relativa spesa entro i tetti fissati a livello regionale e nazionale.
In particolare, i tetti di spesa regionali sono stabiliti dalla Conferenza Stato - Regioni mediante accordo (da adottare, per la prima volta, entro il 15 settembre 2015) e sono soggetti a revisione ogni due anni. Il tetto di spesa nazionale è, invece, quello stabilito dall’art. 1, comma 131, lett. b) della Legge n. 228/2012 (Legge di Stabilità 2013) ed è pari al 4.4% del finanziamento statale del Servizio Sanitario Nazionale.
La rinegoziazione deve essere condotta tenendo conto, come parametro, dei nuovi prezzi di riferimento elaborati dall’Autorità Nazionale Anticorruzione e, nelle more che questi siano definiti, dei prezzi unitari dei dispositivi medici desumibili dal nuovo sistema informativo sanitario del Ministero della Salute (comma 3) nonché dalle fatture elettroniche messe a disposizione dal Ministero dell'Economia e delle Finanze (comma 6). Ulteriore supporto agli enti del Servizio Sanitario Nazionale è offerto dall’Osservatorio Nazionale sui prezzi dei dispositivi medici, istituito presso il Ministero della Salute e incaricato di verificare la coerenza dei prezzi posti a base d'asta con quelli disponibili nel flusso consumi del nuovo sistema informativo sanitario (comma 7).
Infine, ai sensi del comma 4, qualora non sia raggiunto un accordo nel termine di trenta giorni dalla proposta, gli enti del Servizio Sanitario Nazionale hanno diritto di recedere dal contratto, senza alcun onere a carico degli stessi. Analogo diritto è riconosciuto ai fornitori, i quali hanno facoltà di esercitarlo nel termine di trenta giorni dal momento in cui gli enti del Servizio Sanitario Nazionale manifestano la volontà di operare la riduzione. in tal caso, gli enti del Servizio Sanitario Nazionale possono “stipulare nuovi contratti accedendo a convenzioni-quadro, anche di altre regioni, o tramite affidamento diretto a condizioni più convenienti in ampliamento di contratto stipulato, mediante gare di appalto o forniture, da aziende sanitarie della stessa o di altre regioni o da altre stazioni appaltanti regionali per l’acquisto di beni e servizi, previo consenso del nuovo esecutore” (comma 5).
Il payback. Il comma 9 estende al settore dei dispositivi medici l’applicazione del meccanismo del payback, analogamente a quanto già previsto per il settore farmaceutico.
Più precisamente, la disposizione in commento pone a carico delle aziende fornitrici di dispositivi medici l’obbligo di concorrere a ripianare l’eventuale superamento dei tetti di spesa regionali e nazionale nella misura complessiva del 40% per il 2015, del 45% per il 2016 e del 50% a decorrere dal 2017. L’importo complessivamente dovuto è ripartito tra le diverse aziende fornitrici proporzionalmente all’incidenza del fatturato di ognuna sul totale della spesa per l’acquisto di dispositivi medici a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Quanto alle modalità procedurali del ripiano, esse sono stabilite in sede di Conferenza Stato – Regioni, su proposta del Ministero della Salute.
In ogni caso, presupposto per l’applicazione del payback è il superamento del tetto di spesa – nazionale e regionale – per l’acquisto di dispositivi medici.
Il comma 8 dell'art. 9 ter demanda ad un apposito decreto del Ministro della Salute (da adottare, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, entro il 30 settembre di ciascun anno) la certificazione in via provvisoria dell'eventuale sforamento. La certificazione è effettuata sulla base dei dati di consuntivo relativi all'anno precedente (rilevati dalle specifiche voci di costo riportate nei modelli di rilevazione economica consolidati regionali CE, di cui al decreto ministeriale 15 giugno 2012). Gli eventuali conguagli sono certificati sempre a mezzo del decreto ministeriale di cui sopra, sulla base della spesa consuntivata dell'anno di riferimento, una volta disponibile.
Il giudizio sull’efficacia della Legge, ad un anno quasi dalla sua approvazione, è in larga parte negativo.
Da una parte, infatti, a causa della mancata adozione dei provvedimenti attuativi previsti dalla legge (ad oggi, non risultano essere stati stabiliti tetti regionali alla spesa per l’acquisto di dispositivi medici né il Ministero della Salute ha mai emesso il decreto con il quale avrebbe dovuto certificare l’eventuale sforamento dei suddetti tetti), il payback sui dispositivi medici è ancora lettera morta, caratterizzandosi per essere una spada di Damocle sulla testa delle imprese fornitrici di dispositivi medici, generando incertezza sul piano operativo.
Dall’altra parte, la rinegoziazione dei contratti non risulta finora aver conseguito i risultati attesi dal legislatore, a causa della grande difficoltà e delicatezza legata alla ridefinizione di prezzi a fronte di contratti già aggiudicati ed all’attuazione delle conseguenze previste dalla legge in caso di mancato accordo sulla rinegoziazione.
In proposito, la rinegoziazione è stata naturalmente oggetto di ampie critiche da parte degli operatori privati che, in qualità di fornitori, fanno leva sull’esigenza di tutela dell’affidamento e, in generale, della certezza dei rapporti giuridici.
Tuttavia, perplessità sul provvedimento in generale sono state formulate anche dagli operatori pubblici e, in particolare, dagli enti locali. Sull’art. 9 ter pende, infatti, di fronte alla Corte Costituzionale il ricorso per legittimità costituzionale presentato dalla Regione Veneto per violazione degli artt. 3, 5, 32, 97, 117, commi 2, 3 e 4, 118 e 119 della Costituzione nonché del principio di leale collaborazione di cui all’art. 120.
Il ricorso contiene, in premessa, una serie censure di carattere generale comuni agli artt. 9 bis, 9 ter, 9 quater e 9 septies.
A giudizio del ricorrente, innanzitutto, la spending review, considerata nel suo complesso, concreta “un pesantissimo intervento di smantellamento dell’attuale modello di welfare in sanità, introducendo una serie di tagli meramente lineari sulla spesa sanitaria, senza alcuna considerazione né dei costi standard […] né dei livelli di spesa di regioni virtuose che hanno già raggiunto elevati livelli di efficienza nella gestione della sanità”. In secondo luogo, il ricorrente rileva come all’approvazione dei tagli non sia seguita una riduzione, da parte dello Stato, dei livelli essenziali di assistenza (il cui finanziamento, come noto, resta a carico delle Regioni). La terza ed ultima considerazione svolta dal ricorrente in relazione alle disposizioni citate riguarda il mancato raggiungimento di una reale intesa tra lo Stato e le Regioni, le quali ultime si sono trovate nella condizione di dover scegliere se accettare i tagli al finanziamento statale ordinario del Servizio Sanitario Nazionale imposti dal Governo o se tagliare la spesa extra sanitaria per 3.452 milioni di euro.
Quanto alle censure specifiche relative all’art. 9 ter, la Regione Veneto rappresenta, invece, come il taglio delle forniture, di cui al comma 1, contrasti con i principi di ragionevolezza e proporzionalità in quanto, a prescindere da ogni definizione di standard di efficienza, impone la rinegoziazione dei contratti anche agli enti del Servizio Sanitario che già hanno raggiunto elevati livelli di efficienza e di rapporto qualità/prezzo nelle forniture. Le stesse considerazioni valgono, secondo il ricorrente, per il meccanismo del payback.
In ogni caso, a prescindere dall’esito del giudizio di legittimità costituzionale e, quindi, dalla possibilità che l’eventuale accoglimento del ricorso paralizzi l’efficacia delle disposizioni impugnate, sembra inevitabile riflettere sulla necessità di elaborare in misura radicale nuove impostazioni di sistema, o quanto meno, strumenti alternativi basati sul co-payment, vale dire sulla compartecipazione sempre più accentuata del cittadino alla spesa pubblica, a partire dall’aumento dei ticket sanitari fino alla incentivazione del ricorso ad assicurazioni sanitarie ad ampia copertura sulla scorta dei modelli di welfare non incentrati sul monopsomio pubblico.