Con una recente sentenza (28 giugno 2018, n. 17186), le Sezioni Unite della Corte di Cassazione affermano il principio secondo cui “sono escluse dal diritto di voto sulla proposta di concordato fallimentare e dal calcolo delle maggioranze le società che controllano la società proponente o sono da essa controllate o sono sottoposte a comune controllo”
Due società hanno avanzato una proposta di concordato fallimentare di una terza società appartenente allo stesso gruppo. Due creditori e due ex soci si sono opposti all’omologazione sul rilievo che la proposta fosse stata approvata con il voto determinante di due società creditrici, appartenenti allo stesso gruppo, che andavano invece escluse dal voto. Il Tribunale di Roma con decreto del 15 marzo 2011 ha negato l’omologazione.
La Corte d’Appello di Roma, accogliendo il reclamo, ha negato invece che nel concordato sia configurabile un conflitto di interesse. La Corte ha inoltre dichiarato manifestatamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 127 l.fall., sollevata dal curatore del fallimento per violazione degli artt. 3 e 42 Cost.
In assenza di esplicita disposizione, è dubbio se spetti il diritto di voto al creditore che propone il concordato e se sia estensibile alle società correlate alla società proponente la regola di cui all’art. 127 l.fall. relativa alle società correlate al debitore.
La Corte di Cassazione ritiene che debba preliminarmente stabilirsi se al creditore che abbia presentato la proposta spetti o meno il diritto di voto ai fini della sua approvazione.
Tale questione, come ricorda la Suprema Corte, era stata affrontata da Cass. n. 3274/2011. In tale occasione la Prima Sezione della Cassazione, sollecitata ad estendere al concordato la disciplina relativa al conflitto di interesse del socio di società per azioni, aveva osservato che non era configurabile nel concordato fallimentare una situazione analoga a quella di cui all’art. 2373 c.c., in quanto il fallimento non è un soggetto giuridico autonomo di cui i creditori sono partecipi, il complesso dei creditori è costituito in modo del tutto casuale e involontario senza che vi sia alla base alcun patto che imponga la necessità di valutare un interesse trascendente quello di singoli. In conseguenza di ciò il legislatore non avrebbe inserito una disciplina specifica sul conflitto di interesse ma ne avrebbe implicitamente escluso la sussistenza disciplinandone singoli casi di rilevanza del conflitto.
Le Sezioni Unite, discostandosi da tale orientamento, affermano invece che, se è pur vero che nella legge fallimentare difetta una norma analoga all’art. 2373 c.c., ciò non significa che non siano configurabili conflitti di interessi in relazione al voto dei creditori, come dimostrano le esclusioni dal voto dei congiunti del fallito o degli acquirenti di loro crediti da meno di un anno dalla dichiarazione di fallimento.
Tra chi formula la proposta e i creditori chiamati ad accettarla vi è un contrasto di interessi: il primo è interessato a concludere l’accordo con il minor esborso possibile e gli altri, all’opposto, a massimizzare la soddisfazione dei loro crediti. Alla luce di questa considerazione e della centralità dell’autonomia privata nella quale anche il concordato fallimentare si colloca, è da escludere che il silenzio del legislatore possa essere interpretato come implicita ammissione del voto del proponente.
Così risolta la questione preliminare, la Cassazione rileva che l’art. 127 l.fall. al quinto comma prevede che i creditori che siano coniuge o parenti o affini entro il quarto grado del debitore, o gli aggiudicatari e cessionari dei loro crediti entro un anno, sono esclusi dal voto e dal computo delle maggioranze. Al sesto comma aggiunge che la medesima disciplina deve ritenersi applicabile ai crediti delle società controllanti o controllate o sottoposte a comune controllo.
Secondo la Corte, tali norme devono trovare applicazione estensiva: l’esclusione dal voto delle società correlate si giustifica in considerazione del fatto che la loro volontà è condizionata o condizionabile dai soggetti che direttamente versano in situazioni di conflitto e non vi è ragione per ritenere che tale ratio valga esclusivamente quanto al conflitto di interesse dei creditori congiunti del fallito e non anche quanto a quello del creditore proponente.
Con la sentenza in commento le Sezioni Unite prendono per la prima volta posizione in merito alla spettanza del diritto di voto alle proponenti e alle società correlate alla proponente; problematica che non si era mai posta prima della riforma del diritto fallimentare del 2006, perché solo con essa è stata riconosciuta la legittimazione dei creditori a formulare la proposta di concordato fallimentare.
Seguendo l’argomentazione della Corte, si dovrebbe peraltro porre in risalto che nella disciplina vigente ricorre una disposizione di legge che (rispetto al divieto di voto di cui all’art. 127) presenta maggiore affinità con la fattispecie e che potrebbe essere suscettibile di applicazione analogica: l’art. 163, sesto comma, consente il voto ai creditori che abbiano presentato proposta concorrente di concordato preventivo, purché collocati in apposita classe. Si tratta di modalità diversa e meno “invasiva” per attribuire rilievo a situazioni di potenziale disallineamento di interessi nelle vicende concordatarie.
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