La sentenza in commento, inserendosi nell’orientamento interpretativo inaugurato dalla Suprema Corte con alcune pronunce del 2016 [1], ha dichiarato il fallimento della società di fatto costituita tra una società di capitali, dichiarata fallita, e la persona fisica titolare di una ditta individuale, che era anche socio e amministratore della stessa società di capitali fallita. Il fallimento della società di fatto ha conseguentemente comportato l’assoggettamento alla procedura concorsuale anche dell’imprenditore in quanto socio illimitatamente responsabile.
In particolare, l’istanza di fallimento è stata assunta dal curatore della società T. S.r.l. che, a fondamento dell’istanza, ha addotto come tra la società già dichiarata fallita e l’impresa individuale T. di O.Q. fosse stata costituita, a partire dal 2015, una società di fatto per l’esercizio in comune dell’attività già svolta dalla S.r.l. – principalmente con gli enti locali - che, però, nelle more non poteva più operare essendogli negato il rilascio del DURC fiscale (Documento Unico di Regolarità Contributiva), necessario per svolgere tale attività.
Numerosi gli elementi, anche indiziari, che hanno consentito di ravvisare nel caso di specie l’esistenza di un rapporto societario fra la società fallita e l’imprenditore individuale, socio ed amministratore della stessa.
In primo luogo l’identità della denominazione sociale dell’impresa individuale e della S.r.l., nonché la parziale coincidenza degli oggetti sociali delle due imprese: difatti, entrambe esercitavano attività di commercializzazione di impianti per lo sport, sebbene la S.r.l. avesse un oggetto sociale più ampio in quanto esteso anche alla produzione.
Inoltre, le società risultavano avere sede legale nello stesso indirizzo, il che - secondo il Tribunale - avrebbe testimoniato la volontà di esteriorizzare il vincolo di collaborazione. Intento rafforzato anche dalle stesse dichiarazioni di O.Q. in relazione alla prosecuzione, da parte dell’impresa individuale, delle commesse già intraprese da T. S.r.l. con gli enti locali, sottolineando le ragioni che hanno portato a mantenere in vita l’ente societario ossia preservarne l’avviamento e conservarne la clientela e, allo stesso tempo, a costituire l’impresa individuale per portare a compimento le commesse già assunte ma che non potevano più essere completate a seguito del fallimento di T. S.r.l..
Analoga valenza indiziaria è stata attribuita alla documentazione dalla quale risultava che la fornitura delle merci effettuata da T. S.r.l. a favore dell’impresa individuale fosse avvenuta in assenza di corrispettivo e dunque quale contributo apportato da uno dei soci allo svolgimento in comune dell’attività. In aggiunta, i clienti erano indotti a versare il corrispettivo per le attività svolte dall’impresa individuale non già sul conto corrente intestato all’impresa, ma a T. S.r.l..
Trattasi, come evidente, di tutti elementi di per sé sintomatici dell’esistenza di una c.d. supersocietà di fatto, la cui configurazione – sempre a giudizio del Tribunale adito - sarebbe stata inequivocabilmente dichiarata dallo stesso O.Q. con l’ammissione della funzionalità dell’attività svolta dall’impresa individuale al ripianamento dei debiti contratti da T. S.r.l..
Per la partecipazione di una società di capitali ad una società di persone, nel caso in cui la società partecipante sia una S.p.A., l’art. 2361, comma 2, c.c. prescrive la necessità di preventiva deliberazione dell’assemblea e di una “specifica informazione nella nota integrativa del bilancio”.
In forza dell’esplicita menzione contenuta nelle disposizioni attuative (art. 111 duodecies disp. att.), anche la S.r.l. può acquistare una partecipazione in una società di persone, restando però da stabilire se, in assenza di una specifica norma precettiva, l’acquisto rientri nelle prerogative dell’organo amministrativo ovvero sia subordinato ad una decisione dei soci, in applicazione analogica dell’art. 2361, comma 2, c.c. o in base alla riserva di competenza stabilita dall’art. 2479, comma 2, n. 5, c.c.
Sul punto, la sentenza in commento si limita a statuire che, nel caso della società di fatto, non sarebbe esigibile il rispetto delle norme sopra richiamate, quantomeno nelle ipotesi, qual è quella di specie, in cui l’assunzione della partecipazione non comporti un significativo mutamento dell’oggetto sociale. La rapidità del passaggio argomentativo è dovuta al rinvio che il Tribunale di Bergamo fa ai due precedenti della Suprema Corte, ove la questione è affrontata in maniera più articolata e approfondita. Entrambe le pronunce sanciscono la rilevanza meramente interna dell’inosservanza delle prescrizioni di legge in materia: l’assenza della previa delibera assembleare non ha riflessi demolitori sull’ente partecipato e sull’attività di impresa da esso svolta medio tempore; e ciò anche nella S.p.A. per la quale è espressamente prescritta, dovendo invece valorizzarsi il principio di effettività e quello di stabilità dell’ente e dei suoi rapporti negoziali con i terzi.
Nella decisione in commento, la configurazione della supersocietà di fatto è data quasi per scontata. Si tratta, però, di uno snodo argomentativo di grande rilevanza che viene trattato mediante il richiamo alle due sentenze della Suprema Corte innanzi citate, che si basano sul presupposto che le due fattispecie della società occulta - espressamente contemplata dal comma 5 dell’art. 147 legge fallimentare - e della società di fatto, non sono perfettamente sovrapponibili e che, in ogni caso, pregiudiziale si pone la risposta al quesito se l’attuazione in concreto di un rapporto associativo connotato dai requisiti prescritti dall’art. 2247 c.c., sia idonea ad evocare l’applicazione della normativa in tema di impresa e, in presenza di uno stato di dissesto, di procedure concorsuali.
L’art. 147, comma 1, legge fallimentare sancisce il fallimento in estensione dei soci illimitatamente responsabili, “pur se non persone fisiche”, indipendentemente dall’accertamento della loro personale insolvenza, implicando in tal modo la traslazione al profilo effettuale dello svolgimento di un’attività di impresa commerciale, che, ai sensi dell’art. 1, legge fallimentare costituisce il presupposto oggettivo del fallimento. Ciò che rileva è, infatti, lo svolgimento di fatto dell’attività d’impresa in forma collettiva, anche quando siano state violate le regole organizzative di cui all’art. 2361, comma 2, c.c. e/o di cui all’art. 2479, comma 2, n. 5, c.c..
La parte preponderante della sentenza in commento è difatti, come visto poc’anzi, dedicata alla verifica in fatto degli elementi che consentirebbero di ravvisare nel caso di specie l’esistenza di una supersocietà di fatto.
Nella ricerca del referente normativo a cui agganciare il fallimento della supersocietà, il Tribunale di Bergamo ha cura di precisare che la fattispecie non è a stretto rigore inquadrabile nell’art. 147, comma 5, legge fallimentare giacché si tratta di assoggettare a fallimento non una società occulta fra l’apparente imprenditore individuale, già dichiarato fallito in proprio, e altri soci non esteriorizzati, bensì «l’organismo societario costituito da una società di capitali fallita ed altro soggetto», con la precisazione che, tuttavia, tale norma sarebbe applicabile estensivamente per l’identità di ratio tra le due ipotesi.
L’ambito di applicazione della disposizione appena richiamata è stato precisato anche dalla Corte costituzionale[2] reputando consentita, nonostante il suo carattere eccezionale, una lettura estensiva della disposizione in esame che sia conforme ai principi fondamentali dell’ordinamento.
Non si tratta, quindi, di estendere il fallimento di una società già fallita ai soci rimasti occulti - fattispecie già contemplata nell’art. 147, comma 4, legge fallimentare - bensì di accertare in maniera diretta l’esistenza di un soggetto imprenditoriale diverso da quello fallito e la sussistenza in capo ad esso dei presupposti di cui all’art. 1 legge fallimentare.
In considerazione di quanto precede, il Tribunale di Bergamo ha valutato gli elementi di giudizio summenzionati come gravi, precisi e tra loro concordanti, dello svolgimento di un’attività in comune da parte di T. S.r.l. e dell’omonima impresa individuale e dunque dell’esistenza di una supersocietà di fatto tra tali soggetti.
Di conseguenza, il Tribunale di Bergamo ha dichiarato il fallimento della supersocietà di fatto e del suo socio illimitatamente responsabile, senza necessità di accertamento della specifica insolvenza di quest’ultimo.
In conclusione, risulta che l’applicazione estensiva della norma sulla società occulta non rappresenta il tramite necessario per la dichiarazione di fallimento della supersocietà di fatto - giacché a ciò si perviene direttamente in base al comma 1, dell’art. 147, legge fallimentare - né per ripercuotere il fallimento successivo sui soci di cui si scopra l’esistenza in un momento successivo - che avviene in base al comma successivo della disposizione citata l’art. 147, comma 4, legge fallimentare - ma costituisce lo strumento per un trattamento paritario di situazioni omogenee per ciò che attiene alla stessa soggezione al fallimento, pur in assenza di un rapporto societario esteriorizzato.
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[1] Si vedano Cass. 21 gennaio 2016, n. 1095; Cass. 20 maggio 2016, n. 10507.
[2] Corte cost. 6 dicembre 2017, n. 255.