La presente nota prende le mosse da una recente vicenda giudiziaria relativa all’abuso di maggioranza, per soffermarsi in particolare sull’esame delle delibere assembleari adottate al solo fine di danneggiare i soci di minoranza, nonché sull’efficacia immediatamente esecutiva delle sentenze di primo grado di annullamento della deliberazione assembleare.
In due successive adunanze, rispettivamente del 2 agosto e del 29 ottobre 2013, l’assemblea dei soci di P.G. S.p.A. (nel prosieguo, per semplicità, la “Società”) aveva deliberato un aumento di capitale sociale, in conseguenza del quale la quota posseduta dal socio di minoranza G.R. si era ridotta dal 20% allo 0,73%.
Entrambe le suddette deliberazioni erano state successivamente impugnate da G.R. innanzi al Tribunale di Milano che, con la sentenza n. 10048 del 2017, aveva dichiarato inefficace la deliberazione di agosto e annullato la successiva di ottobre, sull’assunto che l’aumento di capitale deciso con la delibera del 2 agosto 2013 non si sarebbe perfezionato non sussistendo alcuna prova della sua effettiva sottoscrizione nel termine previsto dalla delibera medesima.
In data 27 gennaio 2017, con il voto favorevole dei soci di maggioranza, la Società ha deliberato la riduzione del quorum statutariamente previsto per l’adozione delle decisioni di maggiore importanza (quali, ad esempio, quelle relative alla distribuzione dei dividendi, all’ aumento di capitale e alle operazioni societarie straordinarie), dall’85% al 65% del capitale sociale.
G.R. ha impugnato anche tale deliberazione, deducendone l’invalidità per i seguenti motivi: (i) le maggioranze con le quali la deliberazione è stata assunta non sarebbero veritiere perché calcolate avendo come riferimento gli aumenti di capitale dichiarati inesistenti e annullati dal Tribunale di Milano; (ii) sussisterebbe un abuso della maggioranza finalizzato ad eludere gli effetti della sentenza di annullamento sfavorevole per il socio di maggioranza della Società; (iii) sussisterebbe il requisito del periculum in mora, dal momento che il socio di maggioranza aveva intenzione di procedere con nuovi aumenti di capitale. Il ricorso presentato da G.R. è stato rigettato con ordinanza.
Il motivo principale posto a fondamento della decisione del Tribunale di Milano è quello per cui la sentenza di primo grado, in quanto passibile di impugnazione, non può essere considerata definitiva e, pertanto, non può avere “l’effetto di invalidare immediatamente ed in via automatica tutte le deliberazioni societarie assunte con le maggioranze formate sulla base di una delibera solo successivamente annullata (con giudizio non ancora definitivo)”. Avverso l’ordinanza G.R. ha presentato reclamo, riproponendo i motivi precedentemente esposti.
In data 7 giugno 2018, il Tribunale di Milano, con sentenza, ha accolto il reclamo revocando l’ordinanza impugnata, sospendendo l’esecuzione della delibera. Nella motivazione della sentenza si legge che la Società non ha chiarito le ragioni sottese alla decisione di ridurre il quorum deliberativo, limitandosi ad un generico riferimento “all’agevolazione della governance societaria”.
A ciò si aggiunga l’evidente collegamento tra l’adozione della delibera impugnata e la previsione degli effetti quasi certamente sfavorevoli per la Società, derivanti della precedente sentenza di annullamento (seppur provvisoriamente esecutiva), oggetto di impugnazione in appello.
In merito, non possono certamente essere accolte le ragioni esposte dalla Società resistente per cui solo le sentenze passate in giudicato sarebbero dotate di immediata esecutività. Infatti, l’art. 282 c.p.c. non distingue tra tipi di sentenze e, analogamente, l’efficacia delle sentenze di cui all’art. 2908 c.c., rubricato “effetti costitutivi delle sentenze” prescinde dal passaggio in giudicato delle stesse.
In aggiunta, l’art. 2377, settimo comma, c.c., prevede che l’annullamento della deliberazione abbia effetto rispetto a tutti i soci, senza disporre che l’annullamento sia stato deciso con sentenza passata in giudicato; e ancora l’art. 2378, terzo comma, c.c., dispone l’iscrizione nel registro delle imprese sia del provvedimento di sospensione, sia della sentenza che decide sull’impugnazione. L’obbligo di iscrizione per entrambi gli atti è stato interpretato in dottrina nel senso di attribuire alla sentenza (anche se non definitiva) gli stessi effetti del provvedimento di sospensione.
Appare pertanto essenziale ritenere produttiva di effetti anche la sentenza di primo grado seppur oggetto di impugnazione, poiché l’immediata esecutività della sentenza rappresenta l’unico modo per evitare l’annullamento delle deliberazioni assunte nel periodo intercorrente tra l’impugnazione e la decisione in appello, annullamento che metterebbe certamente in dubbio l’effettività del principio di legalità relativamente agli atti societari. È opportuno in merito precisare come si tratti di effetti che potrebbero essere successivamente sospesi dal giudice d’appello, nell’ipotesi in cui ritenga sussistere tutti i presupposti necessari.
In conclusione, quale ultima condizione, viene accertata la sussistenza del periculum in mora, requisito necessario alla concessione di un provvedimento sospensivo di urgenza, analogo a quello richiesto dal ricorrente. Il requisito del periculum in mora deve essere valutato con riferimento a quanto prescritto dall’art. 2378, commi terzo e quarto, per cui è necessario un confronto tra il pregiudizio recato al socio e quello che subirebbe la Società dalla sospensione delle delibere stesse. Nel caso di specie, la Società non verrebbe in alcun modo danneggiata dal mantenimento del quorum statutariamente previsto, viceversa G.R. verrebbe certamente e direttamente leso dalle scelte dei soci di maggioranza, non potendo far valere, in via preventiva, la fissazione del legittimo quorum statutario.
La sentenza del Tribunale di Milano è stata oggetto di numerosi commenti da parte di autorevoli autori, in particolare per l’interpretazione fornita in relazione alla fattispecie dell’abuso della maggioranza.
Parte della dottrina, ha ipotizzato il ricorso in via analogica all’articolo 1345 c.c., come strumento per sanzionare l’abuso da parte dei soci di maggioranza a danno di quelli di minoranza. Dovrà pertanto essere effettuata un’indagine dei motivi sottesi all’adozione della deliberazione, che potrà essere dichiarata invalida solo nell’ipotesi in cui, sottraendo dal calcolo dei voti quelli riconducibili ad un motivo illecito, non venga raggiunto il quorum necessario. È tuttavia opportuno osservare come l’orientamento prevalente in giurisprudenza sia contrario all’applicazione dell’art. 1345 c.c. alle delibere assembleari. Le ragioni sottese a tale astensione riguardano l’assenza di un vero e proprio motivo illecito, inteso come violazione di norme imperative. Questo perché l’annullabilità delle delibere assembleari adottate in danno alla minoranza dipende dal perseguimento di un interesse illecito e non dalla violazione di norme imperative.
La tesi che ha ricevuto il maggior numero di adesioni è quella che ha sostenuto l’impugnabilità delle deliberazioni assembleari per eccesso di potere. Si tratta di tutte quelle delibere assembleari finalizzate a perseguire interessi diversi rispetto all’interesse sociale, a danno dei soci di minoranza, in quanto esisterebbe in capo ai soci un vero e proprio obbligo di compiere ogni atto necessario al perseguimento dell’oggetto sociale.
In tempi più recenti, per delineare l’eccesso di potere al momento dell’adozione delle deliberazioni assembleari, è stato richiamato il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione contrattuale. Più precisamente, nei contratti associativi le parti sono tenute ad agire in modo tale da non recare pregiudizio alle legittime aspettative degli altri contraenti. L’eccesso di potere si verificherebbe di conseguenza tutte le volte in cui la delibera sia adottata ad esclusivo beneficio dei soci di maggioranza, in danno di quelli di minoranza, violando il disposto dell’art. 1375 c.c. Dal momento che l’attività dei soci si esprime nel procedimento deliberativo, è lecito osservare come il rispetto del principio di correttezza debba essere valutato in sede di esercizio del diritto di voto. Conseguentemente, la violazione del dovere di correttezza comporta l’invalidità della delibera. L’art. 1375 c.c. consente di rispettare l’equilibrio tra autonomia negoziale e metodo maggioritario, poiché ciascun socio ha diritto a che gli altri rispettino determinati limiti dal punto di vista negoziale, situazione che non si realizzerebbe se il metodo maggioritario consentisse di beneficiare di vantaggi estranei a quelli su cui si fonda il contratto sociale. È utile infatti ricordare come il contratto di società realizzi una comunione di interessi tale per cui, se da un lato autorizza la subordinazione del singolo alla maggioranza qualora una simile subordinazione sia richiesta dall’interesse sociale, dall’altro esclude l’esercizio del diritto di voto per finalità estranee.
Prima di concludere, è necessario un breve cenno alla provvisoria efficacia esecutiva della sentenza di primo grado. In sede di reclamo G.R. sostiene l’immediata esecutività del provvedimento di annullamento, poiché l’art. 2378, comma 3, c.c. ammette la sospensione, in via cautelare e con decreto motivato, dell’esecuzione della delibera qualora sussistano i necessari presupposti. Il Tribunale di Milano ha accolto la tesi sostenuta dal reclamante, in ragione del fatto che nel nostro ordinamento non è prevista alcuna norma che riconosca immediata esecutività esclusivamente alle sentenze di condanna, contrariamente a quanto prospettato dalla Società. In aggiunta, come più volte osservato, il Tribunale dichiara come l’art. 282 c.p.c non distingua tra tipi di sentenze, riferendosi in modo generico alla provvisoria esecutività delle sentenze di primo grado.
In conclusione, la sentenza del Tribunale di Milano qui brevemente analizzata, si caratterizza per l’apertura dell’organo giudicante dimostrata nel valutare un abuso della maggioranza ai danni della minoranza. L’abuso dei soci di maggioranza si attua, nel caso di specie, nell’adozione di una delibera di riduzione del quorum statutariamente previsto, al fine di prevenire gli effetti sfavorevoli del procedimento di impugnazione della sentenza relativa all’aumento del capitale sociale. Ad avviso del Tribunale è infatti evidente la finalità elusiva della sentenza di primo grado, trattandosi di una delibera che non soddisfa alcun interesse apprezzabile sul piano societario.
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