Con la sentenza n. 13719 del 5 luglio 2016 la Corte di Cassazione si pronuncia per la prima volta sulle condizioni necessarie affinché sia riconosciuta l’esenzione da revocatoria degli atti posti in essere in esecuzione di un piano di risanamento attestato.
Il caso
Una banca chiede l’ammissione al passivo di un credito garantito da pegno, erogato in esecuzione di un piano di risanamento attestato ex art. 67 terzo comma lett. d) l.fall. La curatela oppone la revocabilità della garanzia. Il giudice delegato ed il Tribunale in sede di opposizione ammettono il credito al privilegio sul presupposto che il piano di risanamento attestato determini un’automatica esenzione da revocatoria degli atti conseguenti. La curatela propone ricorso per cassazione.
Le questioni
Il tema controverso riguarda l’idoneità di un piano di risanamento attestato a garantire l’esenzione da revocatoria degli atti compiuti in esecuzione dello stesso nel caso di carenze della relazione di attestazione rispetto ai requisiti di legge ed in particolare (i) se i terzi siano tenuti a verificare la fattibilità del piano e l’attendibilità dell’attestazione e (ii) quale sia nel caso il criterio di valutazione da adottare al fine di poter confermare gli effetti protettivi del piano.
La decisione della Corte
La Suprema Corte, cassando con rinvio, accoglie il ricorso promosso dalla curatela e statuisce che, in caso di insuccesso del piano e di successivo fallimento dell’imprenditore:
Commento
La Cassazione in primo luogo esclude che l’attestazione del piano possa garantire di per sé l’esenzione da revocatoria, come aveva invece ritenuto il Tribunale di Roma, il quale aveva considerato che i terzi, in quanto estranei alla formazione del piano, non sono tenuti a verificare il giudizio di fattibilità espresso dal professionista attestatore.
Su questo punto non vi è specifica motivazione da parte della Corte, la quale dà per presupposto che i soggetti terzi, che partecipano al compimento degli atti previsti dal piano di risanamento, abbiano un onere di verifica del piano. Se, infatti, in caso di successivo fallimento, il Tribunale può revocare l’atto (nel caso specifico la concessione di pegno a garanzia del finanziamento) qualora il piano risulti manifestamente inidoneo a consentire il superamento della crisi dell’imprenditore, ciò significa che i terzi non possono confidare puramente e semplicemente sull’esistenza dell’attestazione.
La Cassazione si concentra quindi sull’ambito della valutazione che il Tribunale deve compiere al fine di confermare l’idoneità del piano ad assicurare l’esenzione dall’azione revocatoria. Da questo punto di vista, la Corte richiama la propria giurisprudenza su analoghi principi già enunciati in tema di valutazione di fattibilità “economica” del piano posto a fondamento della proposta di concordato preventivo (Cass. n. 11497/2014) e si pone in linea di continuità con la stessa.
I criteri valutativi così delineati dalla Corte non sono tali da imporre ai terzi di svolgere un giudizio di natura prognostica, che determinerebbe un eccessivo margine di incertezza in merito agli effetti protettivi del piano, ciò che costituirebbe un forte disincentivo alla partecipazione dei terzi al tentativo di risanamento dell’impresa. Solo qualora emerga una “assoluta, manifesta inettitudine” del piano a conseguire i propri obiettivi, infatti, il Tribunale potrà revocare l’atto posto in essere in esecuzione del piano medesimo. Si deve trattare di situazione non solo percepibile prima facie, ma anche tale da prescindere da qualsiasi margine di valutazione in termini di probabilità circa il verificarsi di determinati risultati, così come precisato dalla Cassazione in altra precedente decisione (Cass. n. 24970/2013): in altri termini, la realizzabilità del piano deve essere esclusa con certezza, mentre non è sufficiente che sia (per quanto altamente) improbabile.
Naturalmente, questa valutazione deve risultare da un giudizio condotto in una prospettiva ex ante (benché, inevitabilmente, il Tribunale si dovrà pronunciare a seguito della dichiarazione di fallimento e, quindi, di insuccesso del piano). Va segnalato in proposito un recente precedente di merito (Trib. Verona 22 febbraio 2016) che ha ritenuto necessario al fine della revocabilità, non solo che il piano sia “palesemente irragionevole e certamente irrealizzabile”, ma anche che gli aspetti dedotti in tal senso dalla curatela siano effettivamente percepibili ed apprezzabili da parte della specifica controparte: si tratta di una prospettiva certamente corretta, che merita di essere seguita a tutela dell’affidamento dei terzi e della funzionalità dell’istituto.
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