Il Tribunale di Milano, con la sentenza n. 7396 del 29 giugno 2017, ha affrontato la vexata quaestio dei limiti di operatività delle clausole statutarie “simul stabunt simul cadent” al fine di evitare di incorrere in situazioni di abuso del diritto.
Per meglio comprendere la portata della decisione del Tribunale di Milano, risulta opportuno illustrare la fattispecie nei suoi elementi essenziali.
La vicenda esaminata dal Tribunale trae origine dalle dimissioni rassegnate dalla maggioranza degli amministratori in carica di una società per azioni quotata e dalla conseguente decadenza dell’intero organo amministrativo per effetto dell’applicazione di una clausola statutaria. I membri cessati del CdA lamentavano, pertanto, una sopravvenuta revoca senza giusta causa e chiedevano il risarcimento danni per la mancata percezione dei compensi e per la lesione della propria immagine professionale.
Fondamentalmente, le istanze di parte attrice facevano leva sull’abuso da parte degli amministratori dimissionari dell’articolo 2386, comma 2, c.c., nonché della clausola statutaria “simul stabunt simul cadent”. Si affermava, in particolare, che soltanto l’organo assembleare avrebbe avuto il potere di far decadere l’intero organo amministrativo, in quanto investito ai sensi di legge del potere di revoca degli amministratori.
Il Tribunale di Milano rigettava le domande attoree ritenendo che non sussistesse un’ipotesi di revoca degli amministratori. Le motivazioni del collegio milanese potranno, tuttavia, essere comprese soltanto illustrando il significato di giusta causa.
Il tema è ampiamente discusso ma dottrina e giurisprudenza sono giunte all’individuazione di due tipologie di giusta causa: (i) soggettiva, ossia caratterizzata da comportamenti contrari agli obblighi statutari o ai doveri di fedeltà, diligenza e correttezza; (ii) oggettiva, ossia qualificata da situazioni estranee all’amministratore che non si traducono in un inadempimento ma sono tali da elidere l’affidamento posto sulle capacità di quest’ultimo.
Alla luce di quanto precede, la giusta causa può sostanziarsi in una condotta dell’amministratore ovvero un fatto esterno allo stesso, tali da ledere il rapporto fiduciario con la società. Occorre tuttavia osservare che ai sensi dell’articolo 2383, comma 3, c.c., gli amministratori possono essere revocati dall’assemblea in qualunque tempo, anche se nominati nell’atto costitutivo, salvo il diritto degli stessi al risarcimento dei danni allorquando la revoca avvenga in assenza di giusta causa.
Quanto precede necessita poi di essere coordinato con l’articolo 2386 c.c., ai sensi del quale è riconosciuta la facoltà di inserire nello statuto clausole che prevedano espressamente che, cessati alcuni amministratori, cessino anche quelli rimasti in carica così facendo decadere l’intero CdA. Una simile clausola, purché correttamente applicata, deve essere considerata quale causa naturale di cessazione dalla carica di amministratore senza diritto al risarcimento del danno, in quanto all’atto di nomina l’amministratore ha altresì aderito alle pattuizioni statutarie. In estrema sintesi, è possibile ricondurre le interpretazioni circa la natura giuridica delle “dichiarazioni e garanzie” a due filoni principali.
Il criterio di distinguo tra una corretta applicazione della clausola statutaria “simul stabunt simul cadent” e all’opposto un suo abuso deve essere ricercato nella buona fede.
Sarà quindi necessario individuare gli elementi peculiari della fattispecie concreta e le ragioni specifiche che hanno portato alle dimissioni la maggioranza dei membri dell’organo amministrativo, al fine di comprendere se nel caso concreto si sia verificato o meno un uso distorto e strumentale dell’articolo 2386 c.c. In particolare, dovrà essere rilevato un abuso dell’articolo 2386 c.c. ogniqualvolta le dimissioni della maggioranza dei membri del CdA siano finalizzate a escludere soltanto alcuni membri del consiglio. Ipotesi che può ricorrere qualora, a seguito della decadenza dell’intero organo amministrativo, l’assemblea nomini un nuovo consiglio composto dagli stessi membri facenti parte del precedente organo ad esclusione di quelli decaduti per effetto della clausola.
4. Conclusioni
Il Tribunale di Milano, nel caso sopra esaminato, ha ritenuto legittima la decadenza dell’intero consiglio di amministrazione in virtù della clausola simul stabunt simul cadent in quanto la gravità dei contrasti e delle tensioni insorte all’interno dell’organo giustificava la scelta delle dimissioni di alcuni membri dello stesso. Si trattava pertanto di uno strumento fisiologico per superare una posizione di impasse.
Il Tribunale di Milano non nega quindi che la clausola “simul stabunt simul cadent” possa prestarsi ad abusi, ma ciò non accade allorquando vi siano esigenze razionali ed oggettive che giustifichino le decisioni degli amministratori dimissionari.
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