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    03.06.2016

    Le Autorità Portuali possono ancora davvero considerarsi come Pubbliche Amministrazioni o sono imprese?


    Brevi note a margine del progetto di riforma della cd. “legge portuale” alla luce del recente parere del Consiglio di Stato (e di alcuni interessanti precedenti del diritto europeo).

     

    E’ dibattito ormai all’ordine del giorno quello della riforma della legge n. 84/94.

     

    Come noto, dopo il parere della Conferenza Stato-Regioni, si è ora anche espresso il Consiglio di Stato con il parere n. 435/2016 del 27 aprile 2016.

     

    L’esito del parere non è stato esattamente quello che in molti avrebbero auspicato per una “veloce” definizione del progetto di riforma della legge portuale.

     

    Per le ragioni di sintesi che la presente sede impone ci si soffermerà solamente sulle considerazioni cui è approdato da ultimo il Consiglio di Stato in merito al riconoscimento della natura (di Pubblica Amministrazione) delle Autorità Portuali.

     

    In particolare, il Consiglio di Stato non solo boccia la possibilità che la gestione dei porti possa essere affidata a delle società pubbliche - ipotesi da alcuni prospettata (tra cui le Regioni) - ma addirittura «dubita circa la compatibilità e l’utilità di adottare la forma giuridica della società partecipata, avuto riguardo agli interessi pubblici in gioco nel settore specifico, nella generale considerazione che l’attività delle Autorità non è riconducibile nell’ambito dell’attività di impresa, dovendo necessariamente svolgersi nel rispetto degli obblighi di servizio a tutela degli utenti e, pertanto, in questo contesto, appare essenziale il momento delle regolazione pubblica e, comunque, l’ineliminabile stringente incidenza del socio pubblico nella governance societaria»

     

    Su questo dibattuto tema ci si limita ad evidenziare

     

    (i) il radicale – e inspiegabile - cambiamento di rotta rispetto all’impostazione interpretativa dal medesimo Consiglio di Stato assunta in precedenza;

     

    (ii) il radicale – e altrettanto inspiegabile – contrasto di tale indirizzo con le statuizioni (vincolanti) del diritto europeo.

     

    Il dibattito, oltre che di interesse sotto il profilo giuridico, ha importanti conseguenze anche per gli operatori portuali che quotidianamente si rapportano con le Autorità Portuali per questioni attinenti alle loro imprese nei diversi porti italiani.

     

    Per fare un esempio, se l’Autorità Portuale dovesse considerarsi un’impresa, la sua condotta (nei confronti degli operatori portuali) assumerebbe una indubbia rilevanza anche sotto il profilo antitrust.

     

    Si pensi infatti al caso in cui due operatori portuali operanti nel medesimo settore dovessero ricevere un trattamento ingiustificatamente diverso nell’ambito di una identica o analoga fattispecie (in materia di canoni demaniali, di opere di infrastrutturazione richieste e non ottenute, sulle diversi condizioni d’uso del bene demaniale concesso o dell’attività dell’uno rispetto all’altro, ecc..): l’eventuale riconoscimento della natura di impresa della Autorità Portuale - in tali casi - potrebbe in ipotesi assumere una chiara rilevanza per l’eventuale violazione dei principi nazionali e comunitari posti a presidio della concorrenza (potendo delineare condotte dell’Autorità Portuale riconducibili al cd. “abuso di posizione dominante”).

     

    Questo a livello locale.

     

    Ma a livello nazionale è altrettanto noto che le Autorità Portuali trovino in Assoporti l’associazione che le riunisce: per cui, sempre in ipotesi, gli atti da loro assunti potrebbero anche delineare condotte a loro volta censurabili come “intese” vietate dal diritto comunitario[1].

     

    Venendo a quanto sopra sarà utile ricordare il parere n. 2361 del 25 luglio 2008, con cui il Consiglio di Stato aveva già avuto modo di evidenziare che le Autorità Portuali, in virtù della loro disciplina dettata dalla L. 28 gennaio 1994 n. 84 e successive modificazioni e integrazioni, non possono essere annoverate tra le pubbliche amministrazioni (dovendo semmai considerarsi più accostabili alla figura dell’Ente pubblico economico).

     

    Più in dettaglio, secondo il parere medesimo, non sarebbe possibile ricondurre le Autorità Portuali alla figura tradizionale dell'imprenditore pubblico, cioè a quella di una struttura avente caratteristiche tali da consentirne, in via di immediata ed agevole interpretazione, la definizione in termini di impresa riconducibile alla nozione classica dell’ente pubblico economico.

     

    Nondimeno, sempre il citato parere, continua però precisando che non può altrettanto pacificamente affermarsi che le Autorità Portuali siano pubbliche amministrazioni in senso propriamente soggettivo ed oggettivo, in quanto dotate esclusivamente di poteri pubblicistici di regolazione o erogazione di servizi ed attività “amministrative”, per soddisfare interessi di natura generale di carattere non industriale né commerciale, secondo la terminologia comunitaria riferita agli organismi di diritto pubblico.

     

    In sostanza si tratta di soggetti che perseguono certamente anche il soddisfacimento di «bisogni di natura industriale e commerciale»[2].

     

    Pertanto, sempre secondo tale parere reso nel 2008, le Autorità Portuali sarebbero Enti che, seppure non in possesso dei requisiti formali classici dell’Ente pubblico economico (agire per fini di lucro, perseguire finalità esclusivamente economiche, cioè operare con criteri di economicità, essere sottoposti alle procedure concorsuali speciali, ecc.) avrebbero una forte connotazione economica, che, in molte parti, non si discosterebbero da quella propria degli enti pubblici economici.

     

    Anche la sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato è dello stesso parere.

     

    Nella sentenza n. 1210/2015 (Consiglio di Stato – Sezione Quarta) del 10.03.2015 i massimi giudici amministrativi hanno testualmente affermato che «secondo la giurisprudenza della Corte, la nozione di “pubblica amministrazione” ai sensi dell’art. 45, par. 4, T.F.U.E. deve ricevere un’interpretazione e un’applicazione uniformi nell’intera Unione e non può pertanto essere rimessa alla totale discrezionalità degli Stati membri».

     

    Ed è appunto la Corte di Giustizia che offre la soluzione vincolante (ed invalicabile) che risulta del tutto valicata dalla pozione assunta da ultimo dal Consiglio di Stato con il recente del 27 aprile 2016.

     

    Secondo una relativamente recente decisione della Corte di Giustizia[3], infatti, le Autorità Portuali italiane non potrebbero essere ricomprese nel novero delle pubbliche amministrazioni secondo il diritto europeo, precisando addirittura come l’impiego presso le Autorità Portuali non possa essere sussunto nella categoria dell’impiego pubblico.

     

    Si noti peraltro che la pronuncia della Corte di Giustizia e del Consiglio di Stato appaiono lungi dal poter essere circoscritte al solo contesto del rapporto di lavoro presso le Autorità Portuali, avendo invece implicazioni di ben più ampio respiro sulla vera natura delle Autorità Portuali (e delle funzioni svolte dal proprio Presidente).

     

    Difatti, nel caso esaminato dalla Corte di Giustizia, quest’ultima è stata chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale su una fattispecie in cui il tema principale ruotava attorno alla legittimità o meno di escludere un cittadino non italiano dalla possibilità di svolgere il ruolo di Presidente di un’Autorità Portuale assumendo che tale incarico avrebbe coinvolto l’esercizio di pubblici poteri che la normativa italiana (ovviamente secondo le prospettazione della Avvocatura della Stato) non gli avrebbero consentito in ragione della sua diversa cittadinanza, essendo a ciò facoltizzato lo Stato Italiano dall’art. 45 par. 4, T.F.U.E.

     

    In questa sentenza la Corte Europea (che rispondeva ad un quesito posto dal Consiglio di Stato) ha esaminato le funzioni svolte in concreto dalle Autorità Portuale e dal proprio Presidente delineando il seguente contesto puntualmente ripreso dalla sentenza del Consiglio n. 1210/2015 del 2015:

     

    «- ancora secondo la giurisprudenza della Corte, la nozione di “pubblica amministrazione” ai sensi dell’art. 45, par. 4, T.F.U.E. riguarda i posti che implicano la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio dei pubblici poteri e alle mansioni che hanno a oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche e presuppongono pertanto, da parte dei loro titolari, l’esistenza di un rapporto particolare di solidarietà nei confronti dello Stato nonché la reciprocità dei diritti e doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza;

     

    - per contro, la deroga prevista dall’art. 45, par. 4, T.F.U.E. non trova applicazione a impieghi che, pur dipendendo dallo Stato o da altri enti pubblici, non implicano tuttavia alcuna partecipazione a compiti spettanti alla pubblica amministrazione propriamente detta;

     

    - in concreto, le funzioni attribuite al presidente di un’Autorità portuale comportano bensì poteri d’imperio (poteri di ingiunzione e poteri di adottare provvedimenti di carattere coattivo), in astratto suscettibili di rientrare nella deroga prevista dall’art. 45, par. 4, T.F.U.E.;

     

    - tuttavia, il ricorso a tale deroga non può essere giustificato dal solo fatto che il diritto nazionale attribuisca poteri d’imperio al presidente di un’Autorità portuale, ma è necessario pure che tali poteri siano effettivamente esercitati in modo abituale dal titolare e non rappresentino una parte molto ridotta delle sue attività;

     

    - inoltre, tale deroga deve ricevere un’interpretazione che ne limiti la portata a quanto è strettamente necessario per salvaguardare gli interessi generali dello Stato membro interessato, che non possono risultare in pericolo qualora poteri d’imperio vengano esercitati solo in modo sporadico, o addirittura eccezionalmente, da parte di cittadini di altri Stati membri;

     

    - nella specie, risulta che i poteri del presidente di un’Autorità portuale costituiscono una parte marginale della sua attività, la quale presenta in generale un carattere tecnico e di gestione economica che non può essere modificato dal loro esercizio e i medesimi poteri possono essere esercitati unicamente in modo occasionale o in circostanze eccezionali»

     

    Ed è questo il punto.

     

    Punto che risulta ancor meglio esplicitato nelle Conclusioni dell’Avvocato Generale, Nils Wahl, secondo cui:

     

    «Certamente, il presidente di un’autorità portuale esercita poteri decisionali ed esecutivi riguardo ai compiti attribuiti allo stesso dall’articolo 8, comma 3, lettere h), i) e m) della legge n. 84/1994.

     

    Tuttavia, dopo un esame più approfondito, non ritengo che l’esercizio di tali poteri sia sufficiente per soddisfare le condizioni assai rigorose dell’articolo 45, paragrafo 4, TFUE. Da un lato, mi sembra che i poteri conferiti riguardo alla concessione di autorizzazioni e permessi per usare determinate aree portuali o per esercitare determinate attività all’interno dell’aerea portuale siano, in sostanza, paragonabili a quelli esercitati da imprese private che svolgono un’attività industriale o commerciale. In particolare, nonostante il fatto che essi assumano la forma di atti amministrativi e riguardino proprietà demaniali, gli atti adottati dal presidente di un’autorità portuale in tale contesto sono, da un punto di vista economico, analoghi ai contratti di affitto o di locazione di proprietà che possono essere conclusi tra imprese private. Dall’altro, l’obiettivo principale perseguito dal presidente di un’autorità portuale nello svolgimento dei suoi compiti a tal riguardo è – come evidenziato dal governo italiano – garantire un uso efficiente e proficuo delle proprietà demaniali gestite dall’autorità portuale. In altre parole, la «stella polare» che guida l’attività del presidente a tal riguardo è l’interesse finanziario ed economico dell’autorità che egli presiede, piuttosto che l’interesse più generale della comunità».

     

    In tale contesto, alla luce del recente parere n. 435/2016 espresso dal Consiglio di Stato in merito al processo di riforma della legge portuale, sembra quindi potersi affermare che sia nuovamente arretrata la linea di “confine” tra l’Autorità Portuale intesa, da una parte, come pubblica amministrazione che esercita attività di contenuto economico e di impresa e, da altra, di ente pubblico unico gestore di poteri pubblicistici.

     

    Nelle more, resta comunque il dato che la natura della Autorità Portuale – indipendente dalla qualificazione della natura giuridica che ne offrono i Giudici o la normativa nazionale  – sarà sempre recessiva rispetto a quella evincibile dai precedenti della Corte di Giustizia.

     

    Sarà a questo superiore quadro che gli operatori portuali dovranno sempre più guardare per capire se nel seguire la propria “stella polare” i presidenti delle Autorità Portuali (o delle future Autorità di Sistema Portuale previste dalla riforma) non abusino della propria posizione di timoniere commerciale del porto…

     

    [1] Solo per migliore riferimento si ricorda che rappresentano intese rilevanti ai sensi antitrust gli accordi, le c.d. pratiche concordate nonché le deliberazioni di associazioni di imprese, queste ultime comprendenti qualsiasi atto, anche avente natura non vincolante, che costituisca espressione della volontà dell’associazione, quali, a titolo esemplificativo, circolari, raccomandazioni, regolamenti, delibere, statuti, ecc.

     

    Tali intese sono vietate quando sono volte a fissare i prezzi o altre condizioni di vendita; ad impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, gli investimenti, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico; a ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento; ad applicare, nei rapporti commerciali con altri contraenti, condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti; a subordinare la conclusione di contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun rapporto con l'oggetto dei contratti stessi.

     

    Le associazioni di imprese le cui decisioni siano considerate in violazione della normativa antitrust possono essere sanzionate, al pari delle imprese che contribuiscono alla integrazione dell’illecito, sulla base di disposizioni e criteri applicativi che differiscono a livello nazionale e comunitario.

     

     

     

    [2] Quali, ad esempio: indirizzo, programmazione, coordinamento, promozione e controllo delle operazioni portuali e delle altre attività commerciali ed industriali esercitate nei porti, manutenzione ordinaria e straordinaria delle parti comuni nell’ambito portuale, affidamento e controllo delle attività dirette alla fornitura a titolo oneroso agli utenti portuali di servizi di interesse generale, non coincidenti né strettamente connessi alle operazioni portuali.

     

    [3] Causa C 270-2013, sentenza del 10 settembre 2014

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