Cos’è successo
Nell’ambito dell’ultima bozza del c.d. “Decreto Energia”, in attesa di essere discussa in Consiglio dei Ministri, è stata prevista all’art. 5 la costituzione di un “Fondo di compensazione e di riequilibrio ambientale e territoriale”, con una dotazione di 200 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2024 al 2032, da ripartire tra le regioni e le province autonome, finalizzato all’adozione di misure per la decarbonizzazione e la promozione dello sviluppo sostenibile del territorio. Con decreto del Ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica, d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, saranno stabiliti le modalità e i criteri di riparto tra le regioni e le province autonome delle risorse del Fondo, tenendo conto, in via prioritaria, del livello di conseguimento degli obiettivi annui di potenza installata ai sensi dell’articolo 20, comma 2, del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199.
Ai fini della costituzione/alimentazione di tale Fondo, le risorse saranno ricavate: (i) dai proventi derivanti dalle aste delle quote di emissione di anidride carbonica di cui all’articolo 23 del decreto legislativo 9 giugno 2020, n. 47; (ii) dalla corresponsione al GSE, da parte dei titolari di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili di potenza superiore a 20 kW che abbiano acquisito il titolo per la costruzione degli impianti medesimi nel periodo intercorrente tra il 1° gennaio 2024 e il 31 dicembre 2030, di un contributo annuo pari ad Euro 10,00 per ogni chilowatt di potenza dell’impianto, per i primi tre anni dalla data di entrata in esercizio.
Tale contributo non sarà tuttavia dovuto: (i) dai soggetti titolari di impianti alimentati da fonti energetiche geotermiche tenuti al pagamento dei contributi di cui all’articolo 16, comma 4 del decreto legislativo 11 febbraio 2010, n. 22 e (ii) dai titolari di impianti idroelettrici tenuti al pagamento di contribuiti per la realizzazione di misure di compensazione ambientale e territoriale ai sensi dell’articolo 12, comma 1-ter, lettera l), del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79.
Le attività necessarie all’operatività del Fondo di cui al comma 1 sono affidate al GSE e sono disciplinate mediante apposita convenzione sottoscritta con il Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica.
Perché è importante
Tale norma, se confermata in sede di approvazione, potrebbe dunque introdurre, a carico di tutti i soggetti titolari di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili di potenza superiore a 20 kW che abbiano acquisito il titolo autorizzativo per la costruzione degli impianti medesimi nel periodo intercorrente tra il 1° gennaio 2024 e il 31 dicembre 2030, l’obbligo di versare un contributo a favore del GSE per i primi tre anni dall’entrata in esercizio.
Così come formulata in bozza, tuttavia, la misura di cui trattasi potrebbe risultare incompatibile con il nostro ordinamento in quanto tale versamento avverrebbe senza che vi sia una controprestazione in favore dei soggetti titolari da parte del GSE e, quindi, apparentemente senza una causa giuridica.
Per meglio comprendere tali criticità risulta opportuno partire da una questione preliminare, e dunque analizzare che tipo di natura abbia l’obbligo di versamento introdotto dall’art. 5 della bozza di D.L. Energia.
In primo luogo, si potrebbe attribuire allo stesso la natura di “misura di compensazione”, laddove per misure di compensazione s’intende, in genere, la monetizzazione degli effetti negativi che l’impatto ambientale determina, per cui chi propone l’istallazione di un determinato impianto s’impegna a devolvere, all’ente locale cui compete l’autorizzazione, determinati servizi o prestazioni. Tuttavia, l’applicazione della misura in esame risulta essere vincolata alla sola potenza degli impianti e non è operato alcun riferimento all’eventuale impatto ambientale degli stessi.
A tal riguardo, è necessario evidenziare come, ai sensi dell'articolo 12, comma 6, decreto legislativo n. 387 del 2003, l’autorizzazione alla costruzione ed esercizio di un impianto FER non può essere subordinata né prevedere misure di compensazione a favore delle Regioni e delle Province, e che in ogni caso tali misure compensative possono essere applicate solo se ricorrono tutti i presupposti indicati nell’articolo 1, comma 4, lettera f) della legge n. 239 del 2004.
Inoltre, come specificato nell’ambito del D.M. 10 settembre 2010 del Ministero dello Sviluppo Economico, non può dar luogo a misure compensative, in modo automatico, la semplice circostanza che venga realizzato un impianto di produzione di energia da fonti rinnovabili, a prescindere da ogni considerazione sulle sue caratteristiche e dimensioni e dal suo impatto sull'ambiente.
Alla luce di quanto appena evidenziato risulta dunque evidente come la misura di cui all’art. 5 della bozza di D.L. Energia, laddove la si qualifichi come una misura di compensazione, presenti indubbi profili di criticità con i principi generali e la normativa primaria attualmente vigenti nel nostro ordinamento, risultando il contributo richiesto agli operatori economici privo di causa e, pertanto, dovuto per il solo fatto di aver fatto entrare in funzione l’impianto di produzione di energia.
In alternativa a quanto precede, si potrebbe attribuire allo stesso la natura di corrispettivo, dovuto dai proprietari degli impianti in ragione del rilascio del titolo autorizzativo.
In tal caso, come la Corte Costituzionale ha già avuto modo di affermare nell’ambito della sentenza n. 124 del 2010 in un caso analogo, tale misura rischierebbe di contrastare con gli artt. 3, 41, 97 e 117, primo e terzo comma, della Costituzione, in quanto limiterebbe la libertà di iniziativa economica nel settore in esame (prevista espressamente dall’art 1 del d.lgs. n. 79 del 1999) con conseguente mancato rispetto degli obblighi internazionali di incremento di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.
Al contrario, non sembrerebbero sussistere criticità rilevanti laddove si ritenga che tale versamento abbia natura tributaria.
È infatti da osservare come lo stesso potrebbe essere considerato quale prestazione patrimoniale imposta a fini solidaristici la quale avrebbe, pertanto, natura tributaria, laddove la destinazione delle somme ricavate ad un “fondo comune” finalizzato ad attività di promozione dello sviluppo economico e sociale del territorio è stato ritenuto elemento determinate ai fini di tale qualificazione, in un caso analogo, dalla suprema corte a Sezioni Unite nell’ambito dell’ Ordinanza n. 16261/2020.
Come osservato nell’ambito della citata Ordinanza n. 16261/2020, infatti, sembrerebbero ricorrere i criteri stabiliti dalla giurisprudenza per qualificare taluni prelievi come tributari: a) doverosità della prestazione; b) mancanza di un rapporto sinallagmatico tra parti; c) collegamento di detta prestazione alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante.
Laddove si optasse per tale ultima classificazione, dunque, è da evidenziare come, nel ragionamento seguito dalla Suprema Corte, non sembrerebbero sussistere criticità di rilievo, laddove: (i) non vi sarebbe alcuna violazione del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., atteso che lo svolgimento di attività d’impresa sulla base di una concessione di derivazione è di per se stessa sintomatica di capacità contributiva; (ii) che in ogni caso l’aumento dei costi fiscali per il concessionario (rectius, soggetto titolare) non rileva, posto che sono rimesse alla discrezionalità del legislatore sia l’individuazione delle situazioni significative della capacità contributiva, sia la determinazione dell’entità dell’onere tributario, con il limite della non arbitrarietà o irrazionalità della scelta legislativa; (iii) non sussistono criticità con riferimento ai principi di legittimo affidamento e certezza del diritto e al rischio di un’ablazione meramente confiscatoria di una rilevante quota di ricchezza (artt. 3, 41, 42, 43 e 117 Cost.)
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