La Legge di Bilancio per il 2023 introduce novità circa le condizioni da verificare affinché non si configuri una stabile organizzazione in Italia in capo ai “veicoli d’investimento” stranieri che operino sul territorio dello Stato tramite strutture di asset management indipendenti, incaricate per loro conto della gestione degli investimenti.
Scopo della nuova disposizione – già nota come Investment Management Exemption – è quello di evitare il rischio derivante dalla configurazione di una stabile organizzazione in Italia (e con ciò la creazione di una presenza ivi fiscalmente imponibile) in capo al veicolo di investimento estero e/o alle sue controllate, per quanto – al ricorrere di determinate condizioni – gli asset manager siano collocati in Italia, o anche in Italia.
La recente modifica, volta ad accrescere la attrattività del Paese nei confronti degli investitori esteri, potrebbe avere conseguenze anche relativamente alla decisione di individuare o localizzare in Italia gli asset manager, nonché i loro dipendenti e/o collaboratori, pure nel solco di altre disposizioni fiscali – già vigenti e di favore – che riguardano la tassazione in Italia dei lavoratori “impatriati”[1], o dei “neo-residenti”, i c.d. high net worth individuals che decidono di trasferire la propria residenza in Italia [2].
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Il tema della esistenza una stabile organizzazione in Italia è spesso sollevato in caso di verifica fiscale e per questo costituisce una area di rischio tipica per gli operatori non residenti. Come noto, e senza pretesa di esaustività, va giusto ricordato che la disponibilità (in Italia) di una sede fissa di affari configura la cosiddetta “stabile organizzazione materiale”, mentre l’utilizzo (in Italia) di una persona che agisce abitualmente in maniera dipendente per conto del soggetto estero configura la cosiddetta “stabile organizzazione personale”.
In sede di verifica, può accadere che una stabile organizzazione sia individuata anche in assenza di attività dichiarate in Italia (branch, società controllate, etc.), mentre in altri casi l'esistenza di una stabile organizzazione viene configurata anche quando il soggetto non residente ha già una presenza “imponibile” in Italia, ad esempio attraverso la esistenza di una società controllata nell’ambito della quale vengono individuati altri redditi (non dichiarati) ascrivibili alla asserita stabile organizzazione “interna”. L'esistenza di una stabile organizzazione, come noto, fa scattare l'obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi, con conseguenti sanzioni tributarie e anche penali al superamento di determinate soglie di reddito ed imposte evase. Pertanto, la esistenza di regole chiare in materia, rappresenta un elemento di certezza sempre auspicato, che evidentemente contribuisce alla competitività del sistema-Paese.
A questo scopo, l’articolo 49 dalla Legge di Bilancio per il 2023 modifica il vigente articolo 162 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (“TUIR”), che contiene la definizione di “stabile organizzazione” già prevista dal diritto nazionale in linea sostanziale con quella prevista nei trattati contro le doppie imposizioni stipulati dall’Italia.
In base al comma 7 dell’articolo 162 del TUIR, non configura la esistenza di una stabile organizzazione in Italia il soggetto che opera nel territorio dello Stato per conto di una impresa non residente e che svolge la propria attività in qualità di agente indipendente e agisce per l’impresa nell’ambito della propria ordinaria attività. Tuttavia, quando un soggetto opera esclusivamente o quasi esclusivamente per conto di una o più imprese alle quali è strettamente correlato, tale soggetto non è considerato un agente indipendente, ai sensi del medesimo comma, in relazione a ciascuna di tali imprese.
Secondo la nuova disposizione introdotta dalla Legge di Bilancio per il 2023, al ricorrere di specifiche condizioni, deve considerarsi agente indipendente dal veicolo di investimento non residente il soggetto – residente o non residente in Italia, anche operante tramite propria stabile organizzazione nel territorio dello Stato – che, in nome e/o per conto del veicolo di investimento non residente (o di sue controllate, dirette o indirette), abitualmente concluda contratti di acquisto e/o di vendita e/o di negoziazione, o comunque contribuisca, anche tramite attività preliminari o accessorie, all’acquisto e/o alla vendita e/o alla negoziazione di strumenti finanziari, anche derivati, incluse le partecipazioni al capitale o al patrimonio, e di crediti.
La indipendenza “presupposta” dell’agente, che comporta ex lege la assenza di una stabile organizzazione in Italia, sussiste a condizione che:
(i) il veicolo di investimento non residente e le relative controllate siano residenti o localizzati in uno Stato che assicuri un adeguato scambio di informazioni con l’amministrazione finanziaria italiana, in base ad apposita lista;
(ii) il veicolo di investimento non residente rispetti determinati requisiti di indipendenza fissati nel dettaglio da apposito decreto attuativo (di successiva emanazione) e plausibilmente riferibili anche alla indipendenza del gestore rispetto alla pluralità degli investitori coinvolti nel veicolo di investimento, piuttosto tipica dell’industry dei fondi di investimento regolati/vigilati[3];
(iii) il soggetto che svolga l’attività di gestione in nome e/o per conto del veicolo di investimento non residente, non ricopra cariche negli organi di amministrazione e controllo del veicolo medesimo e di sue controllate, e non detenga una partecipazione ai risultati economici di questi superiore al 25%; e
(iv) il soggetto residente – o se esistente, la stabile organizzazione in Italia del soggetto non residente – che presti servizi nell’ambito di accordi con entità appartenenti al medesimo gruppo, riceva una remunerazione di libera concorrenza supportata da idonea documentazione.
La combinazione dei suindicati elementi porta a rilevare, in breve sintesi, che la assenza di “stabile organizzazione personale” in Italia riconducibile al veicolo estero e agli investitori sia circostanza acquisita allorché in Italia operi un asset manager o una struttura di asset management (italiani o anche non residenti in Italia ivi stabiliti) che risulti:
- specificamente indipendente – perché non “predominante” sul piano dei diritti e soglie partecipativi ed economici rispetto al veicolo di investimento estero nei termini sub (iii) – e
- remunerata a livello intercompany, per le proprie funzioni e rischi, secondo principi di libera concorrenza.
Al ricorrere delle predette condizioni – prevede la Legge di Bilancio 2023, modificando sempre il previgente art. 162 – la sede fissa d'affari a disposizione della impresa residente che vi svolge la propria attività di asset management, utilizzando il proprio personale, non si considera, “a disposizione del veicolo di investimento … non residente” per il solo fatto che l'attività dell'impresa residente reca un beneficio al predetto veicolo, con ciò escludendosi anche la ipotesi di “stabile organizzazione materiale”.
Vale forse la pena osservare che quello attuale non è il primo tentativo di introdurre nel nostro Paese la già richiamata clausola di Investment Management Exemption: nel 2019, come oggi, sulla scorta di note esperienze straniere [4], fu già avanzata una proposta – poi naufragata – di modificare l’articolo 162 del TUIR in materia di definizione della sede fissa di affari al fine di escludere la rilevanza dell’utilizzo di un gestore di investimenti per il riconoscimento della stabile organizzazione di una impresa non residente, peraltro in dichiarato collegamento alle norme volte alla attrazione in Italia di neo-residenti [5].
In un framework normativo dai confini sempre più labili quale è quello della stabile organizzazione, occorre allora chiedersi in cosa consista, in concreto, la portata innovativa della disposizione in commento, laddove ve ne sia una distinta da una mera integrazione della c.d. “negative list” di cui al comma 4 dell’articolo 162 (che già in precedenza formulava ipotesi codificate di non esistenza di stabile organizzazione).
Al riguardo, va subito riscontrato quanto affermato nella Relazione Illustrativa a corredo dell'introduzione del provvedimento qui in discussione, per cui la mera circostanza che una qualsiasi delle condizioni ivi previste non sia soddisfatta, non implica di per sé l'esistenza di una stabile organizzazione, che andrà casomai riscontrata sulla base di una valutazione della sussistenza delle condizioni previste dall'articolo 162 per considerare esistente – o meno – una stabile organizzazione.
In effetti, già prima delle recenti modifiche, la (non) configurabilità di una stabile organizzazione (materiale o personale) poteva comunque emergere dalla disamina del profilo funzionale di ciascuno dei soggetti che caratterizzano l’intera struttura e l’operatività dei fondi e veicoli di investimento, e dal ruolo eventualmente svolto sul territorio italiano da soggetti gestori. Invero, con riguardo al caso dei gestori di investimenti:
In tal senso, l’esistenza (o la inesistenza) di una stabile organizzazione – materiale o personale – può (e poteva) essere accertata nella eventualità in cui ne ricorrano tutti i presupposti richiesti dalle disposizioni domestiche e convenzionali, e in particolare:
Ad ogni buon conto, stante la già riscontrata labilità del framework normativo di riferimento (talora foriera di dispute con l’Amministrazione finanziaria), va oggi accolto con favore il generale spirito chiarificatore del legislatore, che, con la recente modifica – pur al netto di qualche riserva[6] – consentirà, definito un apposito safe harbour, la più agevole localizzazione ed utilizzo delle varie strutture di investimento del private equity e asset management in Italia, nonché la migliore organizzazione degli stessi asset manager, dei loro dipendenti e dei collaboratori senza incorrere automaticamente nella configurazione, o nel temuto rischio di configurazione, di una stabile organizzazione (materiale o personale) in Italia dei veicoli di investimento esteri.
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Come sopra già osservato, nei casi in cui operi in Italia – per conto di fondi/veicoli di investimento esteri – una struttura di asset management specificamente indipendente sul piano dei diritti partecipativi ed economici rispetto al veicolo di investimento estero e remunerata internamente secondo libera concorrenza, la nuova disposizione esclude la stabile organizzazione in Italia del veicolo di investimento estero: il che – lo si vede bene – tutela (ulteriormente) i rapporti degli investitori esteri con i gestori italiani (indipendenti) già operativi, ma altresì agevola la ipotesi di costituzione di nuovi asset management nazionali, casomai pure di promanazione estera.
Quanto appena rilevato si inserisce infatti in un più ampio contesto normativo, già da qualche tempo in evoluzione nel nostro Paese e mosso dalla volontà di favorire gli investimenti e il radicamento di investimenti, ma anche di nuclei familiari e individui ad alto potenziale, in Italia. Oltre al già citato regime dei lavoratori c.d. “impatriati”, opera nel nostro Paese un regime fiscale di privilegio riservato alle persone fisiche che trasferiscono la propria residenza in Italia (il regime dei “neo-residenti”[7]). Altre norme sono intervenute, in diverso contesto, a favore dell’industry specifica dell’asset management e del private equity, formando un insieme di regole via via più vicino ai sistemi anglosassoni e ai Paesi tradizionalmente più attrattivi degli investimenti esteri[8].
Con riferimento al regime degli impatriati – di più evidente favore sul piano della fiscalità personale del lavoro – , giusto va ricordato che si tratta di un regime di tassazione agevolata temporaneo, riconosciuto ai lavoratori che trasferiscono la residenza in Italia (articolo 16, comma 1, Dlgs n. 147/2015). Il regime è applicabile quando sussistono due presupposti: il lavoratore non è stato residente in Italia nei due periodi d’imposta precedenti il trasferimento e si impegna a risiedervi per almeno due anni; e l’attività lavorativa è svolta prevalentemente nel territorio italiano.
Per i contribuenti che si trovano in tali condizioni, nel periodo d’imposta in cui la residenza viene trasferita e nei successivi quattro, il reddito di lavoro dipendente (o a esso assimilato) e di lavoro autonomo prodotto in Italia concorre alla formazione del reddito complessivo limitatamente al 30% dell’ammontare ovvero al 10% se la residenza è presa in una delle regioni Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sardegna, Sicilia[9].
Nel contesto, è opportuno considerare come lo svolgimento di attività lavorative con elementi di transnazionalità – in generale – possa causare l’insorgenza di rischi connessi alla configurazione di una stabile organizzazione[10]. In tale ottica, è evidente che, soprattutto dopo la Brexit e ancor di più dopo la pandemia da Covid-19 che ha favorito in molte imprese un sostanziale ripensamento dell’organizzazione e delle modalità di lavoro, quanto più il lavoratore impatriato svolge un ruolo “strategico” all’interno della propria organizzazione, tanto più si materializza il rischio di configurazione di una stabile organizzazione in Italia in capo alla società non residente.
Con l’introduzione in Italia della Investment Management Exemption, al ricorrere delle specifiche condizioni da questa previste, tale rischio risulta certamente ridimensionato almeno rispetto ai “veicoli di investimento” esteri serviti.
Al di là dell’esempio riportato e delle considerazioni di massima sin qui svolte – che come si vede bene non hanno alcuna pretesa di esaustività –, si tratta allora di verificare come, anche nell’ambito di più articolati progetti di ricollocazione delle risorse e delle persone verso il nostro Paese, il coacervo di norme di diritto tributario internazionale di recente introduzione possa essere applicato correttamente e secondo canoni di efficienza. A questi fini, il decreto ministeriale di prossima attuazione e le eventuali posizioni ufficiali da parte della Amministrazione finanziaria in materia, potrebbero avere un peso di rilievo.
Il contenuto di questo elaborato ha valore meramente informativo e non costituisce, né può essere interpretato, quale parere professionale sugli argomenti in oggetto. Per ulteriori informazioni si prega di contattare Federico Trutalli e Pierantonio Carpenzano.
[1] L’articolo 16 del D. Lgs. 14 settembre 2015, n. 147 (c.d. “Decreto internazionalizzazione”) riconosce un regime di tassazione agevolata per i lavoratori che trasferiscono la propria residenza fiscale in Italia. In particolare, in presenza delle condizioni richieste, i redditi da lavoro dipendente, assimilati a quelli di lavoro dipendente e i redditi da lavoro autonomo prodotti in Italia concorrono alla formazione del reddito complessivo limitatamente al 30% del loro ammontare (con esenzione quindi del 70%). L’agevolazione, che in alcuni casi può essere estesa sino al 90%, è applicabile per cinque periodi d’imposta, decorrenti dall’anno in cui è avvenuto il trasferimento della residenza fiscale in Italia, con possibilità di eventuale estensione per ulteriori cinque anni.
[2] Il regime dei “neo-residenti”, disciplinato dall’articolo 24-bis del D.p.r. 917/1986, consente alle persone fisiche (e ai loro familiari) che trasferiscono la residenza fiscale in Italia e che non siano state fiscalmente residenti in Italia per almeno nove periodi d’imposta nel corso dei dieci precedenti l’inizio del periodo di validità dell’opzione, di assoggettare i redditi di fonte estera ad imposizione forfettaria sostitutiva dell’IRPEF (e delle addizionali locali) pari ad euro 100.000 per periodo di imposta, riducibile a euro 25.000 nel caso dei familiari aderenti al medesimo regime.
[3] Secondo la Relazione Illustrativa, la definizione di “veicolo di investimento” dovrebbe includere la nozione di “investitori istituzionali” così come definiti dall'art. 6, comma 1, lett. b), del D.Lgs. 239/1996. Secondo le indicazioni fornite dall'Agenzia delle Entrate ai fini del D.Lgs. 239/1996, un “investitore istituzionale”– soggetto o meno ad imposta – è tale allorché svolga attività di investimento per conto proprio o per conto di altre persone e stabilite negli Stati inclusi nella apposita white list (ad es., fondi di investimento, fondi pensione, compagnie assicurative soggette a vigilanza regolamentare nei loro Stati di stabilimento). Qualora tali investitori non siano soggetti a vigilanza regolamentare, può comunque rientrare nella definizione di “investitore istituzionale” quel soggetto estero con specifica esperienza e competenza in strumenti finanziari se operante per conto di una pluralità di investitori in uno Stato incluso nella white list.
[4] Il regime di Investment Management Exemption è, invero, mutuato con medesime finalità dall’ordinamento britannico. Come si evince, infatti, dal Policy paper “Statement of Practice 1 (2001): treatment of Investment Managers and their overseas clients”, sito web www.gov.uk, 1° febbraio 2001, scopo del presente istituto è quello di “enables non-resident to appoint UK based investment manager without the risk of UK taxation and is one of the UK’s continuing attractions for investment managers”.
[5] La proposta di legge allora pervenuta alla Camera dei deputati, in seguito mai approvata, si proponeva di completare la disciplina di quelli che venivano allora definiti come i “neo-residenti”, con riguardo alle conseguenze fiscali connesse al settore dell’asset management, e, nello specifico, era tesa a render certa, al ricorrere di determinate condizioni, la non configurabilità di una stabile organizzazione in Italia in capo al veicolo di investimento estero (in altre parole, un safe harbour). Come risulta agli atti parlamentari, infatti, il testo della proposta di legge del 2019 aveva la finalità di conferire maggiore certezza “sulle conseguenze fiscali connesse ai fondi di investimento (e, quindi, ai relativi investitori esteri) derivanti dal fatto che, nel territorio italiano, agiscono per loro conto i gestori degli investimenti (asset manager), in ipotesi, operanti tramite persone fisiche “neo residenti” (investment manager)”, e ancora, “In assenza di tale misura, gli asset manager […] dovrebbero, di volta in volta e caso per caso, valutare se la loro attività sia idonea a generare, in capo alla struttura di investimento (e quindi al fondo e alle sue controllate e, in ultima analisi, in capo agli investitori) un rischio di stabile organizzazione che comporterebbe in Italia un più elevato livello di tassazione del fondo estero. Tale rischio, e quindi l’incertezza che ne deriva, potrebbe avere effetti fortemente deterrenti sulla decisione di localizzazione in Italia degli asset manager, dei loro dipendenti e dei collaboratori”. Talché dal tenore della relazione introduttiva del testo proposto nel 2019, sembrava che l’intenzione del legislatore fosse quella di salvaguardare dal rischio di configurazione di una stabile organizzazione la pluralità dei soggetti che costituiscono l’intera struttura operativa del fondo di investimento. Nella stessa sede, il legislatore faceva salva la possibilità di tassare comunque in Italia il reddito d’impresa derivante dall’attività di gestione del fondo laddove esso stesso avrebbe potuto essere qualificato, per l’appunto, quale reddito d’impresa (atteso che, come è noto, i fondi di investimento generalmente non realizzano redditi d’impresa), ricondotto a delle attività ivi svolte, e in ogni caso in presenza di tutti gli elementi costitutivi richiesti dalla normativa domestica e dalle convenzioni.
[6] Non del tutto comprensibile sembra essere infatti il requisito (non presente nelle omologhe discipline straniere) richiesto dalla nuova disposizione – peraltro in concorrenza con quello della partecipazione ai risultati economici – della estraneità degli asset manager dalle cariche ed organi di amministrazione del veicolo di investimento estero e relative controllate. Ad accezione, ad esempio, di talune strutture di investimento o di family office particolari e più ristrette (per le quali la disposizione restrittiva in commento potrebbe avere forse una qualche logica, nel contesto), è infatti tipico dell’industry dei fondi di investimento strutturati che i gestori (indipendenti) possano, o per forza di cose debbano, sedere nei board dei veicoli e delle società target possedute dal veicolo di investimento. Salvo auspicate modifiche normative, o a meno che in via interpretativa si escludano dal concetto di “controllate” le società target in ossequio alla ratio agevolativa del provvedimento, allora, per escludere la ipotesi di stabile organizzazione in queste ultime fattispecie, dovrà farsi riferimento ad una lettura ragionata/complessiva dell’art. 162 come già vigente prima delle modifiche.
[7] La Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 17/E del 23 maggio 2017 ha chiarito che, ai sensi dell’articolo 24-bis, comma 1 del TUIR, l’opzione per il regime dei “neo-residenti” consente di tassare mediante imposta sostitutiva nella misura di 100.000 euro (25.000 euro per i familiari “trainati” dal contribuente principale) per ciascun periodo d’imposta in cui è valida l’opzione i redditi di fonte estera individuati secondo i criteri territoriali di cui all’articolo 165, comma 2 del TUIR, vale a dire la norma che disciplina il credito di imposta per le imposte assolte all’estero. Tale norma, a sua volta, dispone che “I redditi si considerano prodotti all'estero sulla base di criteri reciproci a quelli previsti dall'articolo 23 per individuare quelli prodotti nel territorio dello Stato”. L’ordinamento accoglie, pertanto, il cosiddetto criterio della lettura “a specchio”, secondo cui i redditi si considerano prodotti all’estero sulla base dei medesimi criteri di collegamento enunciati dall’articolo 23 del TUIR per individuare quelli prodotti nel territorio dello Stato. Si ricorda giusto a latere che con risoluzione n. 12/E del 18 febbraio 2021 l’Agenzia delle entrate è intervenuta con propria interpretazione circa i servizi di investimento finanziari e di consulenza, personalizzati e dedicati alla gestione del patrimonio del cliente neo-residente.
[8] Di rilevanza nel settore del private equity la apposita disciplina fiscale dei proventi derivanti dall’investimento effettuato nei fondi gestiti da parte di manager e gestori tramite strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali “rafforzati” (c.d. “carried interest”). I “carried interest”, o proventi da diritti patrimoniali “rafforzati”, costituiscono una forma di remunerazione da parte dei fondi di investimento spettante agli amministratori e ai dipendenti interessati a titolo di compenso per l’attività di gestione del fondo stesso, che si sostanzia in una partecipazione agli utili proporzionalmente maggiore rispetto a quella generalmente riconosciuta alla pluralità degli investitori. Al verificarsi di determinate condizioni, tali proventi da diritti patrimoniali “rafforzati” sono qualificati come una forma di remunerazione della partecipazione al capitale di rischio, di natura finanziaria anziché di lavoro. L’introduzione dell’istituto in parola nel nostro Paese ha costituito un intervento particolarmente atteso dagli operatori del mercato della gestione collettiva del risparmio, considerato che mentre i redditi da lavoro dipendente o assimilato sono soggetti a tassazione ordinaria progressiva (con aliquote progressive per scaglioni dal 23% al 43% oltre alle eventuali addizionali), i proventi finanziari godono di una tassazione sostitutiva del 26%.
[9] I benefici previsti dal regime degli “impatriati” si applicano per altri cinque periodi d’imposta ai lavoratori con almeno un figlio minorenne o a carico e a quelli che diventano proprietari di almeno un’unità immobiliare residenziale in Italia dopo il trasferimento o nei 12 mesi precedenti. Per il periodo di prolungamento, i redditi agevolati concorrono alla formazione dell’imponibile per il 50% del loro ammontare ovvero per il 10% in caso di lavoratori con almeno tre figli minorenni o a carico.
[10] A questo proposito, l’Agenzia delle Entrate, con la Circolare n. 33/E del 28 dicembre 2020, aveva già fornito chiarimenti interpretativi in merito all’applicabilità del regime agevolativo in parola in caso di datore di lavoro non residente, specificando che “[…] in presenza di tutti i requisiti previsti dalla norma agevolativa in commento, possono accedere all’agevolazione i soggetti che vengono a svolgere in Italia attività̀ di lavoro alle dipendenze di un datore di lavoro con sede all’estero, o i cui committenti (in caso di lavoro autonomo o di impresa) siano stranieri (non residenti). […] Il lavoratore impatriato, peraltro, potrebbe configurare una stabile organizzazione nel territorio dello Stato del datore di lavoro non residente, ai sensi di una Convenzione contro le doppie imposizioni conclusa dall’Italia, ove esistente, o ai sensi dell’articolo 162 del TUIR”.